CINA, SCENE DA UN MATRIMONIO

«Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà» – Napoleone Bonaparte

 

PECHINO – Costruire contemporaneamente trenta edifici da venti piani in un fazzoletto di terra dovrebbe essere impossibile, come progettare in dieci anni l’insediamento di venti nuove città: inurbare almeno 300 milioni di contadini. Erigerne di nuove, perché le vecchie già scoppiano.

Shanghai sta per sfondare i 24 milioni, Pechino è sui 20, Nanchino si avvia verso la prima decina. Dal 2011 le targhe si estraggono al lotto e c’è chi aspetta da quattro anni, sognando una nuova Bmw o una Hyundai. Non si vedono macchine di piccola cilindrata. Lo status symbol vale anche qui, così come il quartiere finanziario: soliti vetri e grattacieli american style, i nuovi padroni del mondo si distinguono ovunque. La Finanza vuole sempre un posto al sole, anche se in Cina lo Stato partecipa tutte le banche.

Milioni e milioni di persone che oggi possono fare quello che venti anni fa potevano solo sognare. Mai avrebbero pensato di prendere l’alta velocità (fino a 310 Km/h) e di vedersi un film sul televisore domestico al plasma.

Non so se sia riduttivo chiamarla classe media, come quella che in Europa nacque negli anni ’50. Rispetto alla Cina, il vecchio continente aveva visto un mutamento abbastanza graduale della propria struttura economica e sociale, ciò che Pier Paolo Pasolini chiamò “la fine di un universo”.

Il grande drago, il Paese continente, è passato letteralmente dall’aratro allo Spazio. Dalla bicicletta alla Mercedes.

Lo sviluppo supersonico del gigante asiatico ha saltato a piè pari quella generazione (da noi nata nel dopoguerra) che forse poteva in qualche modo attutire il trapasso verso l’omologazione globale, ciò che neutralizza il passato e sospende l’individuo nell’eterno presente.

Dalle campagne stanno esodando circa 20 milioni di persone all’anno; con le loro storie, le loro usanze, i propri costumi, che cedono il passo al progresso, dandogli in pasto le proprie speranze: così cambia il volto di un popolo millenario, che in appena trenta anni sembra stia facendo tremare il mondo.

Napoleone ci aveva avvisato, Lenin era stato profetico: «La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale, il commercio raggiungerà proporzioni enormi, fra cinquant’anni vi saranno da noi molte Shanghai, e cioè molti centri di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria, con milioni di abitanti».

È nel 1992, nello storico documento approvato dal XIV Congresso del Partito, che s’introdusse ufficialmente il termine “economia di mercato socialista”. Oggi siamo già al Sogno Cinese, quello decantato dal Presidente Xi Jinping.

In campagna il salario medio è di 100 euro; nelle grandi città la forbice è 250/400 euro mensili, quando ormai il costo della vita è in ascesa e punta al livello europeo e, in base ai nostri canoni, per condurre uno stile di vita da “classe media” occorrerebbe un salario di circa 1000 euro.

Li Meng e Chang Fang festeggiano oggi le proprie nozze. Meng, lui, è figlio di docenti universitari, giovane ingegnere alle ferrovie cinesi. Fang, lei, lavora allo sviluppo del comparto telecomunicazioni in un’agenzia governativa, originaria di una famiglia contadina della provincia di Anhui.

“Wedding” è la scritta a caratteri cubitali che sovrasta gli sposi, e sarà scolpita su ogni foto che aprirà l’album dei ricordi. Tutto si svolge in un gigantesco Centro Congressi di Pechino, con tanto di palloncini rosso blu e speaker urlante che fa gli onori di casa. I consuoceri si guardano disorientati, ma divertiti. Chissà cosa questa cerimonia avrà in comune con la loro di tanti anni fa. Fang è bellissima nel suo abito bianco, peccato sia da sempre il colore del lutto. Il Rosso è tradizione, ma è già stato retrocesso ai saluti.

Mao, con la sua rivoluzione, ha di fatto estinto quel variopinto mosaico di taoismo, confucianesimo e buddismo, credenze mitologiche e popolari che da secoli davano corpo e anima alla spiritualità del popolo. Una volta abbattuta la diga e aperto al mercato, ecco che l’immagine e i lustrini colmano il vuoto culturale, e il modello dominante della moda del momento prepara a farsi tradizione. In sottofondo, la musica di Star Wars. Più che un matrimonio, sembra la convention del Partito Repubblicano. Più che nella capitale cinese, sembra di essere in quella americana, ammesso che a Washington usi così.

Ma le vere emozioni non hanno mai etichette, oggi si incrociano i calici e le vite di famiglie speciali.

Li, famiglia benestante della media borghesia di Nanchino, e Chang, originaria di una delle tante aree povere dello sterminato mondo rurale. Eppure è proprio dall’universo contadino che è nata la Cina degli Imperi e la Cina delle Rivoluzioni. Grazie all’infinito esercito di riserva del contado, la Cina è divenuta fabbrica del mondo e Superpotenza globale.

Così lontani, così diversi. Eppure, Meng e Fang sono insieme. Impossibile, se lei non avesse spiccato il volo verso la metropoli per un impiego importante.

Lo Stato è protagonista nel dispensare i servizi essenziali ma bisogna pagarsi praticamente tutto, dall’assistenza sanitaria a un’istruzione di qualità. Il cittadino che rimborsa lo Stato erogatore.

Se le elementari sono accessibili a tutti, scuole e Università di alto livello arrivano anche a 10.000 euro all’anno. Farmaci d’importazione e cure adeguate e specialistiche costano una fortuna, ed è possibile stipulare un’assicurazione privata che copra il 20% di queste spese (al restante pensa lo Stato). La copertura previdenziale e assistenziale viene dalle buste paga dei lavoratori.

Chi non ha un reddito sufficiente rimane ad un basso livello di istruzione e senza le cure adeguate, se non può indebitarsi. Ecco come si divarica la società. Si tratta della mobilità sociale del liberismo pianificato Made in China. Ricchi e poveri.

E i figli dei campi? Una sola volta hanno l’occasione della vita, one-shot: una durissima selezione pubblica per accedere alle Università. È questo il segreto di Fang, che poi con numerose borse di studio governative è riuscita a laurearsi e specializzarsi. Proprio lei, terzogenita cresciuta nei landi sperduti della provincia di Anhui. È funzionale al regime scoprire e tutelare i cervelli migliori della Patria, tanto che il loro viaggio di nozze negli Usa, non è stato sconsigliato. È già stato vietato.

Adesso nel bel mezzo della sala sta parlando suo zio, Chang Hu, funzionario del Partito che padroneggia il palco come un veterano. Parla al posto del fratello, che conosce solo il dialetto della terra di origine; l’altra parte della sala non capirebbe la sua lingua. La cerimonia si esaurisce in un paio d’ore, può essere che le minoranze religiose presenti nel paese – e oggi riconosciute – si prodighino in altri rituali; la Chiesa protestante interpellata mesi fa aveva sparato cifre allucinanti. Business is business.

A questo punto, meglio ciò che va per la maggiore, il più gettonato sul mercato è proprio ciò che hanno scelto Li Meng e Chang Fang: 5.000 Euro all inclusive, senza altri pensieri. La gioia e le emozioni non si comprano, e sono autentiche.

C’è trepida attesa nella nuova casa: la sposa porge ai suoceri delle tazzine, adesso è della famiglia. Dolci sorrisi e calda commozione, l’amore timido di chi è puro di cuore. Forse, nelle campagne, le celebrazioni sono àncorate al vecchio mondo. La città ha i suoi ritmi. La Cina contadina aspetta la pioggia per i campi, come la metropoli spera nel temporale: la priorità è ripulire l’aria dalla cappa dello smog, che cala inesorabile come nebbia padana, un giorno sì e l’altro pure.

Traballanti risciò si aggirano come spettri nell’aria densa, tallonati da mostri di grossa cilindrata a prova di pedone. Le zone più aride a nord-ovest sono quelle più povere, il capofamiglia va a cercare lavoro in città e manda i soldi alla famiglia rimasta a coltivare la terra. Il governo pianifica a tavolino quale zona dovrà svilupparsi, quale sarà la sua media salariale, quale area dovrà rimanere indietro nello sviluppo. Interi plotoni di riservisti emigrano magicamente nelle zone via via più sviluppate, tenendo basso il costo del lavoro, garantendo sempre truppe fresche per la guerra del commercio globale, perora vincente. E i milioni di giovani che non avranno mai l’immediata prontezza di Chang Fang, come potranno emergere? Magari è proprio questo il Sogno Cinese che vende il Presidente Xi Jinping.

80 milioni di persone vivono con meno di due dollari al giorno; le zone agricole sono ancora al feudo statale (la terra è di proprietà pubblica), sono la base del Partito, qui si concedono pure finte elezioni municipali (inesistenti a livello nazionale) e un’applicazione più blanda della legislazione del “figlio unico”, che ad oggi è in parte, ormai superata (entrare a far parte del Partito non è così facile: l’ingresso è filtrato dall’alto e normalmente sono privilegiati i laureati, rispetto ai contadini.

Nelle campagne, quasi tutti vorrebbero entrare: essere inclusi significa far parte di un network di relazioni, clientele e favori; nonché di un ascensore sociale). I prodotti della terra, esclusa la porzione di sussistenza, sono già in pasto alla grande distribuzione locale o straniera (soprattutto tedesca). Inurbare 300 milioni persone significherà molto probabilmente puntare sul passaggio all’agricoltura intensiva, molto più redditizia ma anche più dispendiosa. Per adesso l’autosufficienza alimentare (intorno al 90%) è garantita, il punto cruciale potrebbe riguardare la quantità di territorio rimasto coltivabile dopo la costruzione degli immensi nuovi agglomerati urbani e tutto ciò che ne conseguirà, problematiche ambientali incluse.

La Cina non è stata sfiorata dalla crisi del 2008, grazie alla spesa pubblica in disavanzo: 576 miliardi di investimenti ed opere pubbliche, che tennero su la baracca globale, come richiesto al G20 di Washington.

Zhao Sun è uno studente di economia, lo incontro sul treno per Xian. L’ospitalità cinese è la prassi, anche quando si tratta di un semplice scambio di battute; spesso sorridenti e disponibili, molto incuriositi dalla presenza di occidentali, ancora pochi, se non organizzati. Sta tornando dai suoi per un periodo di riposo, è chiaro e risoluto, molto informato: “Dal 1978, dall’apertura al mercato, questo paese è cresciuto, così come il nostro reddito, disuguaglianze comprese: fra ricchi e poveri, fra città e campagna“. L’introduzione delle prime riforme neoliberali, fu pianificata proprio su scala regionale, testando gli effetti nei vari territori.

Il passaggio dall’aratro all’automobile, non sembra così automatico: “chi arriva da fuori, vuol fare fortuna in città, per poi tornare da arricchito al villaggio” . La mentalità è quella rurale dell’accortezza, della scorta per l’inverno, quindi del risparmio e del duro lavoro per ottenere un buon raccolto, che nella società industriale si traduce in un’attività senza sosta, in un adattamento continuo, anche alle condizioni più difficili.

“Cercasi commessa, alloggio incluso, più premio di produzione (la nostra tredicesima, ndr)”, recita un annuncio affisso al bancone di una tavola calda, in un enorme centro commerciale. Il padrone fornisce pure il posto letto in camerata. Il dipendente dorme in uno stanzone coi colleghi, un luogo separato dalla postazione lavorativa. È una scelta a metà fra necessità e convenienza, la metropoli costa e i salari sono bassi. Ciò, traslato in occidente, come dimostrato dalle frequenti cronache di drammatiche sevizie ed angherie nell’oscuro sottobosco della manifattura asiatica, si traduce spesso in lager.

I grandi cantieri di Hangzhou brulicano di operai anche di notte e nei festivi, pure le donne sono della partita: sarà questa la parità?

Il sistema cinese si poggia sulle cosiddette “gabbie salariali”: il paese è diviso in macroaree dove il calcolo dei salari è connesso al costo della vita. L’orario giornaliero è di 8 ore, 20 sono i giorni retribuiti in caso di malattia, 10/15 i giorni di ferie pagate all’anno, escluse le feste nazionali.

Non sempre è così. Non bastano gli incentivi fiscali per diventare la fabbrica del mondo, per le multinazionali si fa molto di più. A Sozhou, la nuova zona industriale è grande quanto l’intera città: è nata Sozhou 2. Il vostro I-Phone, ma anche la console Nintendo e il vostro Motorola, arrivano da Shenzhen, ancora più a sud. Non è raro che i dipendenti si suicidino, gettandosi dal tetto della fabbrica. Anche l’italiana Piaggio ha lo stabilimento a Chongqing.

Scrive il sindacato Cobas di Pisa, la vicina Pontedera è la terra natia della Vespa, ora insetto metallico globale:

  • “una inchiesta commissionata dalla Cisl (2010, ndr) ha studiato lo stabilimento cinese e da essa apprendiamo che gli operai vengono assunti da una agenzia di intermediazione controllata dallo Stato, che gli operai firmano i contratti due mesi dopo avere iniziato a lavorare, operai che non conoscono i contenuti del contratto siglato di cui non possiedono copia. I neoassunti il primo mese ricevono la metà salario, al secondo mese si arriva all’80% dello stipendio e poi via via si registrano piccolissimi aumenti e solo dopo un anno e mezzo circa si arriva al salario intero. A carico dei lavoratori è l’assicurazione contro gli infortuni pari ad una cifra di circa circa 6 euro mensili pari al 6-7% dello stipendio, a carico loro sono le tute da lavoro, i guanti e perfino il logo aziendale da cucire sugli indumenti di lavoro. Gli orari di lavoro: 12 ore al giorno in una settimana di 6 giorni per un orario settimanale di ben 72 ore, anche se alcuni reparti scendono a 10 ore giornaliere (e una sessantina a settimana) e senza alcuna distinzione tra lavori notturni e diurni con l’azienda che ha predisposto dentro la fabbrica un grande dormitorio per ridurre al minimo i tempi di spostamento tra casa e lavoro ed avere una manodopera sempre a disposizione. Ovviamente il dormitorio è a carico dei lavoratori. Il salario minimo legale si aggira attorno a 90 euro il mese. Nei mesi scorsi ci sono stati scioperi e rivolte in molti stabilimenti della Cina e per questa ragione in diverse città il salario minimo è stato portato a 110 euro. Lo stipendio medio mensile nella fabbrica Zongshen arriva a 160 euro con paga oraria di circa 40 centesimi di euro. E poi vengono a parlare di etica, responsabilità e marketing per occultare uno sfruttamento selvaggio e condizioni di semischiavitù. Questa è la globalizzazione capitalistica” .

Prima di ogni seduta che conta, il governo canta l’Internazionale dei lavoratori. Il popolo, però, non può. In gruppo non è consigliato, “di questa canzone hanno veramente paura e potrebbero facilmente irrompere fra la folla con la forza“, dice Wang Kang, sarto e commerciante di finissima seta.

Esiste libertà di parola, ma non libertà di protesta.

Ciò che nel 1989 avvenne a Pechino in piazza Tienanmen e in altre città del Paese, quando operai, studenti ed intellettuali si sollevarono per protestare contro i provvedimenti di politica economica di macelleria sociale messi in campo da Deng Xiaoping, fu una carneficina.

“Lo choc del massacro rese possibile la terapia choc“, ossia le violente riforme economiche liberiste del consulente governativo Milton Friedman. Ciò trasformò la Cina in un’enorme fabbrica per lo sfruttamento della manodopera, la meta preferita da quasi tutte le multinazionali del pianeta. Nessun altro Paese offriva condizioni più convenienti: tasse e tariffe basse, funzionari corruttibili e, soprattutto, abbondante forza lavoro sottopagata che per molti anni avrebbe esitato a richiedere salari più decenti o semplicemente le minime tutele di sicurezza, per paura di violenti rappresaglie .

Oggi l’economia cinese è composta dal 70% di imprese private (nazionali ed internazionali) e, per il restante 30%, da imprese statali. “Fino al 2001, non avevo altro che una vecchia bicicletta“.

Chen Wei, intermediario di import – export nel settore enologico, guarda soddisfatto la sua berlina (che la Volkswagen produce in loco solo per il mercato cinese). Valore di mercato, sui 30.000 euro. “Mai avrei immaginato nella mia vita di vederti guidare, pensa come sarebbe felice tuo padre“, gli ripete spesso la madre ultracentenaria. Le auto tedesche e coreane, hanno una fetta enorme del mercato. Per il vino, la Francia la fa da padrone. “I cinesi non hanno la cultura del vino, a loro non appartiene. Paradossalmente, potrei vendere con successo anche l’acquavite arancione se fosse possibile promuoverla e distribuirla su grande scala. Sarebbe come se si volesse imporre il shè ròu (il serpente, ndr) nella dieta mediterranea: e chi lo conosce da voi? Dipende quasi tutto dal tipo, dalla forza della propaganda e dalla capacità di distribuzione“.

Per entrare nel mercato, non importa così tanto la qualità del prodotto (anche se ormai certe fasce di consumatori conoscono e apprezzano le etichette migliori), quanto oliare i meccanismi: dalla genesi della filiera, al singolo ristoratore, fino al cameriere che porta la bottiglia sul tavolo del cliente. La corruzione pubblica e privata è sistemica.

Ovvio che solo le grandi imprese (ormai multinazionali) e la grande distribuzione abbiano la forza economica per imporre il prodotto (vagonate di pubblicità, più o meno indiretta) e per distribuirlo in maniera capillare, anche lubrificando i collaudati meccanismi relazionali e d’impresa. La contesa è molto dura per le piccole e medie imprese straniere, per esempio italiane, che non possono avere i mezzi economici per entrare in partita, peraltro adottando l’euro – moneta sopravvalutata per tutti – Germania esclusa.

Dall’enogastronomia, alla moda, al design, le grandi aziende italiane si sono mosse e sono sbarcate da tempo, ma la nostra ossatura produttiva trova serie difficoltà e spesso rimane a bocca asciutta. Chen Wei non riesce a trovare spazi commerciali per i piccoli produttori del Chianti e sta pensando seriamente di proporsi come intermediario di Banfi o Antinori, ammesso che non siano già al completo.

Non sono affatto corruzione e clientelismo a “frenare la crescita economica”, come invece propagandato in Europa per smontare lo Stato a vantaggio dei privati nazionali e multinazionali. La Cina cresce del 7% (al secondo trimestre del 2015) perché ha un oceano di persone da sfruttare, labili vincoli ambientali e oltre 300 milioni di consumatori compulsivi da spennare, contagiati dal virus globale dopo secoli di digiuno. Bevono acqua francese e guidano macchine tedesche. I programmi tv, la pubblicità, i film, tutto rispecchia il modello american way of life, ma a ideogrammi: dalle autoavetture, agli shampoo, alle bibite gasate, ai grandi marchi veicolati da ammiccanti modelle. Al posto dei format di assurde storie familiari occidentali, vanno in onda vicende di contado: dal raccolto quotidiano, alle accese diatribe del villaggio che coinvolgono amici e parenti. Famosi per un giorno.

Le immense metropoli, le modernissime infrastrutture, l’industria sviluppata e competitiva, un settore finanziario che fa shopping fra le nostre banche e multinazionali che comprano le nostre imprese migliori. Hanno i saperi, la tecnologia, le risorse energetiche, un immenso continente sotto i piedi, un patrimonio umano e una cultura infinita.

Avrebbero ciò che serve, per vivere tutti degnamente bene. “Non è possibile, siamo troppi”, mi dice rassegnato il padre di Li Meng. Mi torna spesso alla mente quel contadino che trascina i piedi consumato dalla fatica, con l’ aratro smosso da un ronzino smagrito. A poche centinaia di chilometri di distanza, a Shanghai, un treno ipertecnologico corre fluttuando nell’aria, senza toccare terra.

Il 90% dei miliardari cinesi sono figli dei funzionari del partito comunista, circa 2900 di loro controllano 260 miliardi di dollari. Sono otto i clan che contano, hanno imparato l’angloamericano ad Harvard e Princeton, quello che li fa macinare business sulla pelle di oltre un miliardo di “Compagni“.

La maggior parte dei cinesi non ha un buon livello di istruzione, di cure mediche, un lavoro dignitoso e non può riscattarsi socialmente. Il sistema istituzionale e il modello economico vigente è funzionale ad escluderli a vantaggio di una minoranza che, allo stesso tempo, ha permesso che si creassero altre sottoclassi, comunque privilegiate rispetto alla massa. Lo Stato ha sovranità politica, monetaria ed economica, sovranità militare, e usa questi strumenti per attuare la dittatura del capitalismo nazionale e multinazionale sul popolo. È la creatura perfetta della globalizzazione neoliberista.

In dieci anni, Pechino è raddoppiata. La bolla immobiliare che si è innescata è paurosa: un appartamento di 200 mq nella zona centrale della città, è passato da duecentomila a 4 milioni di euro. “Deve ringraziare l’ex primo ministro Wen Jiabao“, dice sorridendo un agente immobiliare, mentre mi fa vedere un elenco infinito di prossime trattative che sta per chiudere. Parla dell’affare che sta concludendo con un ex manager di una multinazionale americana: fra poco venderà per comprarsi il villone a Long Island. Se vi fossero stati ancora dei dubbi, ecco a chi sono funzionali le scelte politiche del Dragone.

Peraltro Wen Jiabao e famiglia, secondo il New York Times, avrebbero nel tempo accumulato una fortuna di 2,7 miliardi di dollari.

Stati Uniti e Unione Europea non tuonano contro lo Stato cinese perché non rispetta i diritti sociali del popolo. Lo Stato cinese è ormai fonte primaria primaria di profitto per l’Occidente. Questo ha permesso alla Cina nel 2000 di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ed è ciò che ne fa, da allora, la locomotiva del mondo.

Senza diritti sociali non esistono diritti civili. E la disoccupazione italiana, greca, spagnola, non è dovuta alla concorrenza sleale del colosso asiatico bensì al fatto che, in ognuno di questi paesi europei, ciascuno Stato non investe nell’economia per farla ripartire e creare così occupazione. Delegando al mercato di autoregolarsi, vince il profitto e perdiamo noi: i lavoratori, d’Asia o d’Europa, poco importa.

La propaganda occidentale dei mostri gialli, brutti, sporchi e cattivi è impressionante. Un paese a sviluppo impetuoso, con contraddizioni fortissime, ma in alcune zone davvero avanzato per infrastrutture, risorse energetiche, manifattura, che sta diventando autosufficiente anche dal punto di vista tecnologico. Stanno imparando ad “autogestirsi”, a non aver bisogno degli altri. Cosa ne sarà di noi, quando raggiungeranno l’avanguardia in settori che ancora rimangono ad appannaggio occidentale?

I nostri governanti hanno scelto da tempo: siamo vagoni al rimorchio. E quando il design, l’informatica, la meccanica, saranno cinesi? Stanno studiando, sperimentando, pure copiando, e prima o poi, arriveranno a destinazione. Forse le criticità di fondo sono ambientali e sociali. Il rallentamento degli ultimi tempi, sembra orientato a questo, a ristabilire un pò gli equilibri interni.

La libertà di stampa è certamente vagliata e limitata. Hanno le loro alternative, i loro motori di ricerca sul web. Pensate, ormai è provato: è possibile vivere senza Facebook, Twitter e Youtube; anche se con un modesto software si bypassano tranquillamente i blocchi. I Social media vietati, Google a mezzo servizio… Oddio, la Libertà!. Come se noi che li abbiamo, non fossimo sottocontrollo. Anzi, magari ci controllano pure meglio proprio perché li usiamo.

L’ironia pungente, il sottile sarcasmo, l’innata umiltà, la saggezza collettiva. Nessuna rivoluzione ha potuto soppiantare una cultura millenaria. “Vi sono due cose durevoli che possiamo sperare di lasciare in eredità ai nostri figli: le radici e le ali”, dice il padre di Li Meng. Peccato che la globalizzazione mette a rischio identità e cultura, sostituendole con valori commerciali.

Il Maoismo e il socialismo reale soppiantano la spiritualità, le radici, la religione. Al culto della divinità, si sostituisce il Capo pro tempore dello Stato col suo culto della personalità. Una cultura sociale, fatta di vincoli solidaristici e solidali, che serve in realtà a cimentare e legittimare l’entità Stato in qualità di unico potere a cui obbedire come unico potere dominante che, coattamente, livella la società al minimo vitale e non pone le persone in condizione di riscatto, di elevazione sociale, di libertà e di benessere.

Quello che chiameremo capitalismo compassionevole di Stato, realizzatosi a est del Muro di Berlino durante il ventesimo secolo, è stata l’anticamera più buia e misera del capitalismo più selvaggio e spietato, quello liberista di stampo oligopolistico e plutocratico. E, al momento del crollo, l’eldorado consistente in beni pubblici da saccheggiare, eserciti di schiavi da sfruttare, lasciati appena a sopravvivere.

Mao ha distrutto l’identità culturale cinese per instaurare una nuova, ossia la propria e della sua cerchia. Il modello globale ha colmato il vuoto culturale, instaurando la società dell’immagine e del profitto. Si rimuove l’antico, per innalzare grattacieli. Si neutralizza il passato, per dominare l’eterno presente.

Cosa potremmo dire pensando agli sposini Li Meng e Chang Fang? Quale sarà il loro futuro? E quello dei loro figli? Forse è anche ciò che dovrebbero comprendere i Mario Rossi, o i John Smith: il liberismo è “la libertà del potere e non la libertà dell’uomo“, come afferma il grande costituzionalista greco Giorgos Kasimatis. Dobbiamo esserne coscienti. Essere coscienti che esistono alternative all’esistente e che si tratta solamente di una questione di scelte.

Il dialogo è sempre arricchimento reciproco, Meng e Fang sono affascinati dall’Europa, dalla sua “dolce vita“; a parole non amano molto il loro Paese, lo vedono grigio ed ingiusto. “Siete fortunati“, mi dicono. Nel vecchio continente le cose stanno cambiando molto ed il giardino del vicino, non è più così verde, ma si avvicina all’ opaca erba sintetica di Pechino.

CONCLUSIONI

Proviamo ad immaginare insieme come potremmo vivere a Shanghai, Roma, New York o Cape Town. Potremmo vivere in uno Stato democratico che contempli la sovranità politica, monetaria ed economica. Uno Stato che tuteli e promuova i diritti individuali e l’iniziativa privata. Uno Stato che promuova e tuteli il patrimonio artistico e culturale. Una società che viva di attività economiche utili a fornire un benessere reale e di territori laboriosi a misura di persona, nel rispetto di tradizioni, identità ed ambiente. Una società, che grazie al ruolo dello Stato regolatore e dello Stato sociale, permetta una diffusione della ricchezza e quindi lo svilupparsi di una comunità meno diseguale.

Crescere è possibile. Il “Come”, è soltanto una scelta politica: dipende chi produce, a quali condizioni e cosa si consuma.

Le risorse finanziarie di uno Stato sono illimitate, le risorse naturali sono limitate. Ma solo uno Stato può decidere di salvaguardare l’ecosistema, tutelando e promuovendo al contempo i diritti inalienabili dell’uomo, di cui godiamo fin dalla nascita, e il rispetto della natura: e ciò non succederà mai, se continuassero a prevalere le multinazionali sull’uomo. Bene facciamo a mantenere, riutilizzare, riciclare. È una scelta consapevole di spirito civico e dovere sociale, individuale o di gruppo. È il risultato di un importante percorso culturale autonomo ed indipendente da ciò che impone la società materialista.

Il modello consumistico ha posto eticamente e culturalmente in crisi la società, di cui forse ha cambiato addirittura i cromosomi. Se ne esce non smettendo di consumare, non certo fregandosene, ma consumando in altro modo. È una questione culturale enorme, che solo uno Stato con un buon sistema educativo può affrontare su larga scala e nell’arco di più generazioni. Con la Democrazia potremmo avere la sovranità del popolo, istituzioni regimentate da pesi e contrappesi, che possano evitare l’accentramento del Potere. Una società che renda sostanziali libertà, diritti sociali e civili. Una società laica e non atea. Potremmo.

Li Meng e Chang Fang mi guardano stranissimo, molto perplessi, ed hanno ragione. La mentalità cinese si è plasmata solitaria, per millenni, nella Terra di Mezzo.

Al tempo di Confucio (551-479 a.C.), i diritti erano accordati solo in riguardo della posizione e del ruolo dell’individuo nella società. Figurarsi oggi, dopo decenni di digiuno collettivo forzato: il merito è la fedeltà all’autorità, l’ambizione, il bisogno, la competizione sfrenata, la paura di perdere il ritmo e fallire, o di non avere mai l’opportunità di un posto al sole, se non nelle campagne sperdute del Paese continente.

Scarsissime sono le possibilità che possa svilupparsi un grande senso civico, una significativa coscienza sociale e politica, una consapevole partecipazione diffusa. L’individuo uscito dal laboratorio liberista parla cinese, ma anche tutte le altre lingue del mondo sviluppato.

Li Meng e Chang Fang sono comunque desiderosi di ascoltare e di conoscere opinioni diverse. Potremo dire loro che, già oggi, sarebbe possibile per i cinesi disporre di un pieno Stato sociale e beneficiare del pieno impiego (con salari giustamente retribuiti, tutele e diritti). Proprio così, anche se oggi lo yuan si è svalutato per ben due volte e pure se ciò, domani, dovesse accadere di nuovo.

Wen Jiabao e compagnia lo sanno bene, ma direbbero: “impossibile, siamo troppi”. Chi altro sa? Il Presidente Xi Jinping? Per adesso, formuliamo il nostro Sogno Cinese: che succederebbe se sapesse il Popolo?

Cambierebbe il mondo.

 

Jacopo Brogi