Lidia Menapace insegna con l’esempio della sua vita: la Resistenza partigiana, la voglia di ricostruire dopo le macerie civili e umane della guerra, l’impegno culturale e sociale. Nelle sue parole c’è un misto di saggezza e leggerezza che non può non affascinare.
Di seguito pubblichiamo la trascrizione del suo intervento al convegno “Attuare la Costituzione”, svoltosi il 18 marzo 2017 a Milano, in cui l’ex staffetta partigiana spazia tra passato, presente e futuro con un pizzico d’ironia.
“Discorso di una partigiana della cultura”, di Lidia Menapace
Buonasera a tutte e a tutti,
sempre tutte e tutti, cioè sempre il linguaggio inclusivo.
E sempre prima tutte e poi tutti, non solo per cortesia che quando c’è si ringrazia e quando non c’è non si può protestare, ma per diritto, perciò si può protestare: perché noi donne siamo di più.
Quindi: contano i numeri, contano i voti. Non so se sapete di quanto siamo di più. All’ultimo censimento, quello del 2011, le donne risultarono essere due milioni e trecentomila circa più degli uomini. Quando lo dico, c’è sempre qualche patriarca gentile che mi dice: adesso vedrai che ci mettiamo subito in riga. Guardate che ci fu un milione di voti di donne più che di uomini al referendum “Monarchia-Repubblica”; quindi non metteteci sempre così tanto tempo insomma… cercate di sveltirvi un po’… perché altrimenti nel 3003 siamo ancora qui che contiamo quanti dovremmo essere.
Dopo aver dunque detto buonasera a tutte e a tutti, per ciò che vi ho detto fin qui, aggiungo anche che oggi a Milano c’erano tante altre cose: io ero invitata anche a un’altra perché si celebra anche la morte di Fausto e Iaio e la storia del Leoncavallo; io non ho potuto andare e mi sono scusata, ma ho promesso che avrei nominato questa cosa. Credo di doverlo fare e lo faccio. Dobbiamo ricordarli anche perché dal modo con cui gli eventi nel corso dei quali Fausto e Iaio furono uccisi, viene una leggenda sui centri sociali che li definisce a priori sempre tutti luoghi violenti, ignoranti e prevaricatori. Non è vero, e ristabilire una verità storica a dirlo e avendolo almeno citato, ha per me questo valore, questo significato e vi ringrazio per avermi ascoltata fin qui.
Ora, noi siamo qui per chiederci qualche cosa sulla democrazia e molti si domandano che dovremmo diventare un partito, dovremmo diventare un movimento, dovremmo diventare… Io credo che sia bene che noi restiamo i Comitati. La parola comitato, nella recente storia italiana, ha una ascendenza assai gloriosa: si chiamava C.L.N. (Comitato di liberazione nazionale) quello che guidò la Resistenza; e quando noi ci siamo trovati con i Comitati e abbiamo detto NO ecc., Renzi ci disse che eravamo un’accozzaglia… aveva ragione. Anche il C.L.N. era un’accozzaglia; sì perché era fatto da giovani che non avevano alcuna precedente esperienza politica, non sapevano niente di ordinamenti, di mozioni, di voti di fiducia, e così via… Sia anche perché ne facevano parte anche i monarchici; dentro nel C.L.N. c’erano anche i monarchici! Dunque, certamente dei rappresentanti di questa istituzione che noi volevamo assolutamente che fosse distrutta, ma chi in quel momento aiutava a fermare lo scempio nazista, doveva stare con noi.
Nel C.L.N. si discuteva acerbamente, furiosamente, di continuo, un po’ anche perché dopo venti anni di fascismo – specialmente i giovani (anch’io sono stata giovane un po’ dopo le guerre puniche) – avevamo una gran voglia di discutere; perché prima era vietato, quindi c’era anche questo gusto della discussione che in qualche modo diventava anche aspra. E poi però vi si metteva fine votando tutti e tutte, compreso i monarchici; tutte, compresa Gisella Floreanini Della Porta che fu ministra della Repubblica dell’Ossola, prima che le donne avessero il diritto di voto; a tal punto la Resistenza anticipò cose che poi furono conquistate con le lotte.
Quindi discutevamo moltissimo, poi votavamo, poi facevamo; ma ciò che era rimasto in minoranza non è che per questo venisse messo nel dimenticatoio dello storico o tanto meno nei rifiuti; se capitava l’occasione lo si riprendeva. Quindi era un modo di discutere che non buttava via niente sostanzialmente. Metteva come un po’ in ordine l’esecuzione delle decisioni.
Questa maniera di procedere, a me sembra singolarmente adatta al presente, mentre tutte le forme che sinora abbiamo sperimentato di democrazia nella prima fase della nostra storia repubblicana, non hanno questa caratteristica.
Io chiedo perciò che a partire dal referendum del 4 dicembre si ponga una periodizzazione: cioè un pezzo di storia italiana che arriva fino a lì e dopo ne comincia un altro. Continua ad essere storia della Repubblica italiana, ma è un’altra fase. Ed è molto importante ricordare che c’è uno stacco di questo genere. Non abbiamo nemmeno bisogno di dire: noi vogliamo fare…
I partiti sono nominati nella Costituzione, furono la prima forma organizzata al di fuori delle istituzioni formali, diciamo così, proprio perché erano stati presenti nella lotta di Liberazione; tra l’altro lotta di Liberazione, non guerra. Perché se devo scegliere un simbolico, preferisco scegliere un simbolico sportivo, e non un simbolico militare. Quindi, sempre lotta, mai battaglia. Addirittura io parlo sempre di straordinario successo del referendum, non dico vittoria; non stavamo facendo una guerra. E includo nello straordinario successo anche quelli che uscendo dall’astensione hanno votato sì. Anche loro sono da tenere in considerazione. Il sistema per discutere tra di noi a me pare sarebbe bene che fosse, quindi, in linea con la proposta di mantenere di fatto l’espressione Comitato, facendo riferimento al Comitato di liberazione nazionale, mantenendo anche un po’ in modo auto-ironico la definizione siamo proprio un’accozzaglia anche noi come il famoso C.L.N. detto prima.
Come discutiamo tra di noi?
A me piacerebbe molto che mettessimo in mezzo l’idea che facciamo dei patti tra di noi; discutiamo in modo pattizio. Cioè ci mettiamo d’accordo su alcune cose che ci piacciono e decidiamo di farle. Che cosa ha di interessante infatti la parola pattizio? Che non è concorrenziale; vuol dire che ciò di cui ci occupiamo non sono merci. La Costituzione non è una merce, la politica non è una merce. E quindi è bene che venga agìta non mettendo in mezzo la concorrenza, che è una cosa tipica del mercato e riguarda per l’appunto le merci, ma mettendo in mezzo un altro modo di comportamento che è quello di fare dei patti e poi di eseguirli; vedere se si possono eseguire o si correggono. Questo è il secondo aspetto che vorrei ricordare.
Il terzo è che a me pare che quella periodizzazione che comincia il 4 dicembre rappresenta una tale rottura, infrazione, mutazione della storia italiana che veramente da il via a un altro tipo, a un altro momento, a un altro evento storico. E io sono convinta nonostante tutto quello che si dice di male del tempo in cui viviamo – anch’io non mi sottraggo a questo – di vedere che ci sono stati dei rischi terribili che fino ad ora sono stati evitati, ed è possibile perciò avere qualche speranza. Perché per esempio, nel referendum abbiamo avuto successo e nella misura che era del tutto insperata ed inestricabile addirittura.
Ma anche in Austria non ha vinto proprio il peggio; e nemmeno in Olanda. E Trump, che è il peggio forse che si possa immaginare, non è che ha tanto la via facile insomma. Ha forti opposizioni e resistenze dentro il suo paese. E io sono dell’opinione che sarebbe bene che le raccogliessimo tutte queste, non per dire: è fatta; non è vero che non c’è più niente da fare. Non è mai vero che non c’è più niente da fare: qualcosa da fare c’è sempre se si è un po’ in coscienza vincolati a cercare di farlo; mettendo anche insieme, cercando di connettere, di collegare. Qui ciascuno adopera il pezzo di cultura che gli appartiene.
Io ho fatto studi storico-letterari, quindi se penso che cos’è il limite mi viene in mente “L’infinito” di Leopardi, naturalmente; che però è un limite romanticamente tenue perché è una siepe di là da quella di interminati spazi…
Ma un poeta italiano più recente invece che dice che il limite è una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia; così dice Montale della vita. E allora cosa faccio? Cerco la maglia rotta nella rete. Perché un disegno così irrazionale come quello del capitalismo in cui viviamo non può non avere maglie rotte. Perché altrimenti non sarebbe più vero niente di quello che appartiene all’essere umano, alla sua ragione, etc.
Insomma io sono perché nell’interno del nostro movimento o quello che ci pare, dei Comitati per il NO – Comitati per l’attuazione e la difesa della Costituzione, impariamo anche un modo di comportamento reciproco che non voglio che sia né a salamelecchi o a così, cose barocche, ma che sia del tutto aperto ed esplicito dove ciascuno di noi si dica in faccia quello che pensa. Io sono anche per lo sberleffo politico; mi sembra una cosa importante. L’ironia e l’autoironia mi piacciono molto.
Ma che tutto questo, non abbia però un seguito o un peso di rancore e soprattutto non stabilisca tra noi delle gare per apparire: per prendere l’applauso più forte, per essere sempre in prima fila… impariamo l’atteggiamento più solidale, più amichevole.
Visto che, da tutto quello che ho detto si dovrebbe dedurre, si può dedurre, che io sono dell’opinione che siamo in una fase pre-rivoluzionaria e ne sono convinta di questo. Sarebbe già la seconda volta in meno di un secolo che lasciamo perdere… abbiamo già perso il ’68; ci siamo lasciati portar via il ’68 di cui hanno ancora paura, ma tuttavia l’hanno sconfitto. Non si può lasciar perdere nel corso di una sola vita due occasioni rivoluzionarie; è impossibile.
Se siamo in un momento pre-rivoluzionario è importantissimo che ci domandiamo che tipo di rivoluzione si può immaginare oggi. Certamente non una rivoluzione strutturale come primo passo: se assalti le fabbriche vieni represso con il consenso delle masse, giustamente. Quindi devi fare una rivoluzione culturale non nel senso cinese del termine, ma qualche cosa di simile. Devi incominciare a cambiare la tua testa, il tuo modo di comportarti: il livello della tua coscienza. E questo si può fare.
Per esempio si può incominciare a dire: l’ospitalità è una grande virtù sociale e le forme politiche devono avere anche un aspetto sociale e un linguaggio non accademico, non ex-catedra, perché altrimenti il modello di regnante che viene più apprezzato è papa Francesco. Papa Francesco – averne sicuramente di papi così – ma è molto pericoloso; non solo perché è gesuita (poi lì si va in altre questioni) ma perché, essendo un sovrano assoluto, lui non ha neanche bisogno di voti di fiducia. Veicola l’idea che un uomo solo al comando è il meglio che c’è.
E ricordate che, se a me si dice “un uomo solo al comando”, io invento subito qualche barzelletta o qualche sberleffo anche per papa Francesco… E infatti penso che una delle prime azioni a cui dovremmo pensare, sarebbe quella di far diventare – davvero e finalmente – la Repubblica italiana uno stato laico, abrogando l’articolo 7.
Spesso mi chiedono: “Ma secondo te la Costituzione italiana è così perfetta che non si può neanche riformarla o deformarla?”
Io sono contro la deforma e il revisionismo, ma non considero la Costituzione italiana un dogma e penso che, fino a quando c’è l’articolo 7, l’Italia non è un paese laico. E voglio ricordare che l’articolo 7 fu l’articolo sul quale, nella Assemblea costituente, si divisero per la prima volta clamorosamente i socialisti e i comunisti: quindi la Sinistra s’indebolì.
I socialisti votarono contro, più laici; i comunisti votarono a favore perché gli premeva soprattutto di prendere… pensavano che senza un rapporto con la Chiesa in Italia non si può far niente. Togliatti fece il discorso della mano tesa non per caso a Bergamo…
Se noi da qui, portiamo via, per portarlo a Napoli e poi via via nel tempo l’idea che cerchiamo di mantenere per intanto questa forma delle Assemblee dei Comitati che si auto-convocano volta per volta; che non si fanno sempre solo a Roma. Io infatti ho scritto un po’ villanamente che l’aspetto nazionale romano dei primi passi del nostro movimento dei Comitati, non mi piace mica tanto. Perché si deve fare tutto a Roma? Non c’è motivo. Io faccio parte di una Regione a statuto speciale, sono d’accordo anche con il Friuli-Venezia Giulia, d’accordo anche con la Valle d’Aosta, perché non dobbiamo fare qualcosa su questo argomento magari lassù.
Vi invito anche ad un tantino di simpatia per un po’ di carnevale; non facciamo sempre e solo cose doverose, cupe; perché se dobbiamo dire “seguiteci che vi conduciamo alla rivoluzione”, sarà anche meglio che non siamo tanto musoni.
Lo slogan con il quale concludo, e che ha sempre un successo popolare molto diffuso, è che tra le tante vie per la rivoluzione che ci sono, io preferisco la via alcoolica al socialismo.
Video a cura di L’altra news
Trascrizione a cura di Thomas Vaglietti
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Lidia Menapace, all’anagrafe Lidia Brisca (Novara, 3 aprile 1924), è una saggista italiana. Da giovanissima prende parte alla Resistenza partigiana in qualità di staffetta partigiana. Nel dopoguerra si impegna nei movimenti cattolici, in particolare con la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana). All’inizio degli anni sessanta incomincia a insegnare presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Trasferitasi in Alto Adige nel 1952, fu – assieme a Waltraud Gebert Deeg – la prima donna eletta nel consiglio della Provincia autonoma di Bolzano nel 1964 e, in quella stessa legislatura, anche la prima donna a entrare nella Giunta provinciale. Considerata una delle voci più importanti del femminismo italiano, nel 1969 partecipa alla fondazione de “il manifesto”. Nel 1973 è tra le promotrici del movimento “Cristiani per il socialismo” ed entra a far parte del “Comitato per i diritti civili delle prostitute” come membro laico. Nelle elezioni politiche del 2006 viene eletta al Senato nelle liste di Rifondazione Comunista, e durante il suo mandato parlamentare svolge le funzioni di segretaria della Commissione Difesa e di Presidente della Commissione d’inchesta sull’uranio impoverito. Autrice di numerosi libri, tra cui: Il futurismo. Ideologia e linguaggio (1968); L’ermetismo. Ideologia e linguaggio (1968); Per un movimento politico di liberazione della donna (1973); La Democrazia Cristiana (1974); Economia politica della differenza sessuale (1987); Né indifesa né in divisa (1988); Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno? (2000); Resisté (2001); Nonviolenza (2004); Lettere dal Palazzo (2007); Un anno al Senato (2008); Io, partigiana. La mia Resistenza (2014); Canta il merlo sul frumento. Il romanzo della mia vita (2015).
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