«Le avventure di Pinocchio»
di
Attalo, Verdini e Barbara
Testi di
Silvia Pompei – Mario Verger – Stefano Galeone
Prefazione di Silvia Pompei
«Caro Mario,
so che ti occupi da anni con fervore del Pinocchio di Attalo, Verdini e Barbara.
Accolgo quindi con gioia il tuo invito a dedicare un mio pensiero al prezioso scritto di Stefano Galeone sull’argomento – frutto di ricerca appassionata e rigorosa – nella speranza che prima o poi torni alla luce il materiale “perduto”.
La passione dei cartoni animati l’ho sempre avuta fin da piccolissima. Ricordo quindi l’emozione, quando papà e mamma mi raccontarono che il mio adorato, pur se mai conosciuto nonno e illustre scenografo Mario Pompei, aveva creato i “set” per il nostro protagonista burattino/bimbo. Se il film fosse arrivato sugli schermi, nel lontano 1935, avremmo visto Pinocchio scorrazzare in un Paese dei Balocchi, firmato “Pompei”.
Lo spirito di nonno ce l’ho nel sangue e da ragazza riuscii a realizzare il mio sogno di lavorare nei cartoni animati. Volai a Londra a lavorare a Chi ha incastrato Roger Rabbit? per Richard Williams e per Spielberg, per cui continuai a disegnare per Fievel Conquista il West. Approdai infine in America a Los Angeles, ai Simpsons, dove sono a tutt’oggi animatrice dei personaggi, disegnati a mano.
Adesso il sogno sarebbe di poter ritrovare un giorno il nostro primo e originale Pinocchio, perché possa essere finalmente visto e apprezzato in Italia e nel mondo.
Un abbraccio da Los Angeles,
Silvia Pompei».[1]
Il Pinocchio incompiuto
Introduzione di Mario Verger
Un ventennio fa all’Anica, per conto dell’Associazione Tecnici Industrie Cinematografiche, redassi un articolo sul lungometraggio incompiuto del 1935 intitolato Le avventure di Pinocchio [2], realizzato alla CAIR dai nostri umoristi Attalo, Verdini e Barbara. Esso conteneva anche alcune dichiarazioni, del tutto inedite fino a quel momento, relative a un’intervista che il sottoscritto condusse a Mameli Barbara, in seguito, edulcorata e tradotta su internet in diverse lingue.
Ma già da bambino conoscevo La Filastrocca di Pinocchio di Raoul Verdini, di cui sapevo che, a distanza di quarant’anni avanti dal lungometraggio d’animazione incompiuto, aveva illustrato anche i versi in rima dello scrittore Gianni Rodari. Raoul Verdini (che italianizzò il suo nome in Raul), il quale conoscevo anche per le tavole su MIAO realizzate col suo stile antico e pulitamente garbato, abitava non lontano da casa sopra le Mura Vaticane, oltre Jacovitti.
In adolescenza, il Pinocchio di Verdini, Attalo e Barbara, tornò nuovamente ad appassionarmi ed andai alla Biblioteca Nazionale di Roma a ricercare sui vecchi testi di animazione notizie a riguardo.
Mi appassionò soprattutto la Storia del cartone animato [3] di Enrico Gianieri, caricaturista di fama che si firmava sotto lo pseudonimo di GEC, nel quale finalmente trovai moltissime informazioni e illustrazioni sul Pinocchio scomparso.
Inoltre, visionai A…come animazione [4] di Mario Pintus, un libro ormai introvabile del 1975 nel quale il critico cinematografico sassarese riprendeva le osservazioni ampliate sul Pinocchio di Attalo, Verdini e Barbara.
Lessi anche Walter Alberti, conservatore della Cineteca di Milano, il quale scrisse Il cinema di animazione [5], un testo risalente al lontano 1956 che accennava alla tecnica dell’animazione de Le avventure di Pinocchio.
E la validissima Piccola storia del disegno animato italiano [6] di Ermanno Comuzio, nella quale il critico cinematografico e musicale bergamasco evidenziava che il Pinocchio non raggiunse mai gli schermi cinematografici italiani.
Come ancora, Disegni e pupazzi animati di ieri e di oggi [7], I disegni animati [8], Ombre italiane [9], e L’Italia di cartone [10], di Piero Zanotto e Fiorello Zangrando, nei quali i due giornalisti veneti raccontavano vari aneddoti del Pinocchio incompiuto.
Ma soprattutto, Topolino e poi [11], la prima versione della storia del cinema di animazione mondiale scritta dal celebre studioso ravennate Giannalberto Bendazzi, nella quale veniva fornita una versione più esauriente riguardo il lungometraggio su Pinocchio della CAIR, pubblicando anche per primo una foto del regista Romolo Bacchini.
Un ventennio avanti alle mie ricerche, un compositore di colonne sonore cinematografiche, il modenese Stefano Galeone, che da anni si è appassionato al film di Attalo, Barbara e Verdini, è stato l’unico fin oggi ad aver compiuto lo studio più completo sinora mai realizzato su Le avventure di Pinocchio di Romolo Bacchini.
Prima di presentare questa raccolta di scritti, di cui Stefano Galeone mi ha chiesto un’introduzione al suo testo, desideriamo pubblicare un articolo apparso sul quotidiano La Stampa risalente al 1935, nella rubrica CINE — STAMPA a firma del giornalista e fotografo Gastone Bosio, intitolato, Pinocchio sullo schermo:
«Pinocchio sullo schermo. Si è costituita una Casa Editrice italiana per disegni animati – 110.000 disegni per un film di 2000 metri che rievocherà le avventure di Pinocchio.
Roma, 11 notte. Oggi dunque narreremo del caso, non certo pietoso, capitato al nostro amico Barbara. Da un anno circa, il lettore fedele avrà più volte visto i suoi schizzi su questa pagina; Barbara ci segue spesso e volentieri con carta e matita nei nostri vagabondaggi per i cantieri romani: macchine da presa, microfoni e proiettori sono divenuti per lui ormai oggetti familiari tante sono le volte che ha dovuto ritrarli. Finora non s’era manifestato nel nostro amico nessun sintomo di morbo cineastico. Ma ieri sera, mentre uscivamo dagli studi della Cines dove avevamo assistito ad una interessante ripresa di Casta Diva, eccoti clic, appena salito in macchina, con una certa aria di mistero e un pizzico di titubanza — come il giovinetto che mostra all’amico influente il primo copione — estrae da una busta due foto e ce le porge. Le guardiamo, sono gli ingrandimenti di due fotogrammi, ma di due fotogrammi di un disegno animato. Guardiamo meglio: la bottega di un falegname, un vecchietto che sta lavorando attorno ad un burattino, ma quel naso del burattino è un po’ troppo lungo e quel suo profilo fin dai tempi non troppo lontani della nostra tenera età ci sono ben noti: ma naturale! è Pinocchio e il vecchio falegname è il caro e buon mastro Geppetto. Così il mistero viene presto spiegato. Da venti giorni, in gran segretezza, si sta girando a Roma per conto di una nuova Casa Le avventure di Pinocchio. Circa quattro anni fa all’inaugurazione della Caesar-Film rinnovata, l’onorevole Barattolo aveva annunziato un Pinocchio da girarsi con attori in carne e ossa, ma con costumi e ambienti sapientemente stilizzati. L’idea era ottima. La sceneggiatura dovuta, se non erriamo, a Febo Mari ci dissero che era piena di gustose trovate. Gran parte degli attori erano stati scelti, Mario Pompei aveva disegnato le scene, i mobili ed i costumi, il tutto veramente con molto buon gusto e sapore. Anzi il giorno dell’inaugurazione degli stabilimenti in un teatro trovammo alcuni ambienti già montati, ma poi, come capitò spesso a questa Casa, tutto andò a monte e gli ambienti montati servirono, convenientemente truccati, ad Amleto Palermi per girare alcuni quadri del primo film di Emma Gramatica: La vecchia signora! E l’anno scorso una Casa nientepopodimeno giapponese, pensò di girare un film su Pinocchio: pare che oggi questa pellicola sia stata ultimata ma non essendosi la Casa messa preventivamente d’accordo per la cessione dei diritti d’autore del libro, nè avendo voluto ora acquistarli, il film è stato giustamente fermato.
Cosi i diritti d’autore per tutto il mondo delle avventure di questo celebre burattino dovuto alla fantasia del toscano Carlo Lorenzini, ben più noto certo sotto il pseudonimo di Collodi, sono stati ora comprati dalla C.A.I.R. (Cartoni Animati Italiani Roma), che sarà la casa produttrice di questo disegno animato di Pinocchio. Barbara ci conduce stamane a visitar questo nuovo stabilimento. Entriamo in un vecchio portone di una viuzza accanto all’Università, quel portone da cui si entra anche per salire al loggione del Teatro Valle. Al terzo o al quarto piano ci fermiamo davanti ad una porta con tanto di CAIR scritto ben chiaro su una lucida targa.
Entriamo. Tre vaste stanze, tavoli, fogli di carta da disegno, fogli di celluloide, una mezza dozzina di disegnatori intenti a ritoccare sui fogli di celluloide i disegni sono al lavoro. Alle pareti grandi disegni di Pinocchio, di mastro Geppetto e mastro Ciliegia, del terribile e panciuto gendarme e della dolce e liliale Fata.
Conosciamo il produttore, Romolo Bacchini, che assieme al figlio Carlo sono anche i direttori e operatori di questo film. Il Bacchini padre ci dice infatti:
— Sono un vecchio «cinematografaro», come ci chiamavano a Roma trent’anni fa quando incominciai ad occuparmi di cinematografo alla vecchia Cines con Alberini. Il tempo è passato, ma la passione è rimasta. Così con la collaborazione di mio figlio da tempo mi occupo del problema dei cartoni animati. Ho fatto vari esperimenti, ma credo di essere oggi sulla buona strada. Fino ad ora abbiamo girato due cartoni animati [12] lunghi circa 300 metri, s’intitolano: Dalla terra alla luna e La morte ubriaca. In Italia non sono ancora usciti, ma li abbiamo già venduti all’estero dove sono stati bene accolti e giudicati. Ora ci siamo accinti ad un’opera veramente grandiosa e difficile: si tratta, come sapete, di portare sullo schermo Le avventure di Pinocchio in un film di disegni animati della lunghezza di oltre 2000 metri: un film insomma di normale programmazione, tale da formare spettacolo a sé. Le avventure di questo burattino di Collodi, pur essendo di un sapore prettamente italiano, sono ormai note in tutto il mondo, non per nulla il libro è stato, e sempre con successo, tradotto in trenta lingue circa. E ad animare questo burattino ed i suoi compagni il Bacchini ha chiamato una giovane triade di disegnatori del Marc’Aurelio: Barbara, Verdini e Attalo. Mentre il compito di Attalo è quello di ideare gli ambienti dove man mano si svolgono le varie scene, il compito di Barbara e Verdini consiste in quello capitale, per la produzione di un cartone animato, di disegnare i vari personaggi e, quello che è più difficile ancora, di realizzare graficamente i vari loro movimenti. Il tentativo è senza dubbio interessante, e la passione del produttore e la buona volontà e l’abilità di questi tre disegnatori, a cui certo non dovrebbe mancare quella giusta sensibilità umoristica, danno bene a sperare.
Il lavoro è immenso. Bisognerà fare, circa 110.000 disegni. Calcolando una media di 300 disegni al giorno, occorrerà al minimo un anno. E infatti, tra sincronizzazione e montaggio si prevede che Pinocchio sarà pronto per la programmazione in tutto il mondo verso l’autunno del 1936. La musica sarà scritta, pare, dal maestro Umberto Giordano, Accademico d’Italia. Il costo complessivo del film è preventivato in un milione di lire italiane. Il dialogo è stato ridotto al minimo, essendo l’azione mimica sapientemente sottolineata dalla musica e dai rumori più che sufficenti alla comprensione dell’azione.
A pochi giorni di distanza dalla visita del nuovo laboratorio per cartoni animati dell’Istituto Nazionale LUCE, veniamo a scoprire un secondo. La buona volontà dunque non manca agli italiani; auguriamoci solo che queste ottime intenzioni siano presto coronate da un meritato successo, e quel petulante naso di Pinocchio sia di buon augurio a questa nuova Casa e al tempo stesso l’ammirato pioniere del cartone animato italiano sugli schermi di tutto il mondo.
Gastone Bosio». [13]
E, infine, per la prima volta agli appassionati di tutto il mondo riportiamo il testo integrale dell’intervista, rilasciata esclusivamente al sottoscritto nel 1992, riguardo al mio primo e unico incontro con l’anziano cartoonist de Le avventure di Pinocchio Mameli Barbara, già pubblicato nel capitolo sui pionieri del cinema d’animazione italiano nel volume della mia cinebiografia animata, intitolato, MARIO VERGER – An Italian Original, con l’introduzione di Luca Raffaelli:
Nel presente volume scrissi:
Ma, tornando ai pionieri dell’animazione italiana, durante il periodo di quando lavoravo appena ventenne alla Corona Cinematografica col produttore Elio Gagliardo, conobbi Mameli Barbara, il quale fu gentilissimo nei miei riguardi invitandomi a casa sua per parlare del Pinocchio incompiuto risalente al lontano 1936. Egli abitava lungo Viale delle Province e andai a trovarlo in un caldo pomeriggio di giugno del 1992. Nel 1935, infatti, tre fra i più affermati umoristi del periodico Marc’Aurelio, quali, Attalo (pseudonimo di Gioachino Colizzi), Mameli Barbara e Raoul Verdini, intrapresero un film a lungometraggio, Le avventure di Pinocchio, che rimase poi incompiuto, non raggiungendo mai gli schermi cinematografici. La regia venne affidata al maestro di musica Romolo Bachini (Bacchini), cui si dovevano le prime musiche della Cines. Le scenografie erano eseguite dal noto scenografo Mario Pompei, già attivo da molto tempo col “Teatro dei Piccoli” di Vittorio Podrecca.
Barbara mi fece accomodare nella sua stanza di lavoro. Ormai ottuagenario, l’anziano cartoonist se ne stava seduto accanto al suo tavolo di legno inclinato, mostrandomi l’intera stanza sommersa, oltre che da un’infinità di disegni, schizzi, quadri ecc., anche da libri d’ogni genere, soprattutto la collezione dei classici della BUR. Ne prese poi uno molto grande, elegantemente rilegato, che raccoglieva le diverse annate del Marc’Aurelio con le splendide copertine da lui dipinte. Mameli Barbara era una persona estremamente simpatica, giunto ad un’età ormai avanzata, suggeriva una certa tenerezza: dovevo alzare molto la voce per parlare con lui; ricordo che aveva un grosso “corno” che metteva vicino all’orecchio per riuscire a sentire le mie parole… Ma per tornare al nostro Pinocchio, Barbara mi svelò cosa realmente accadde nel 1935 durante la lavorazione del film. «Era l’epoca del cartone animato Disney», raccontò Barbara, «e il fratello dell’allora Ministro di Giustizia Alfredo Rocco (l’autore del nuovo codice civile) volle fare un film a cartoni animati e scegliemmo Pinocchio», proseguì Barbara scavando nei suoi ricordi. «Tale impresa si rivelò molto dilettantistica, poiché era priva di sceneggiatura e di altri supporti; inoltre, ognuno dei realizzatori disegnava per conto proprio senza coordinamento alcuno. Eravamo presso Piazza dei Caprettari».[15] Poi, chiedendogli di descrivermi la CAIR (Cartoni Animati Italiani Roma), ricordò, «La CAIR non era altro che una grande stanza con bagno ed ogni mattina andavo lì, leggevo un pezzo del libro e disegnavo i movimenti principali che passavo poi al figlio del regista [16] per eseguire le posizioni intermedie». Si riferiva all’animatore Carlo Bachini, che avrebbe partecipato il decennio avanti a La Rosa di Bagdad. Per quanto Barbara descrisse la CAIR come una grande stanza sita in una delle zone più caratteristiche di Roma, risulta invece, dalla ricostruzione, che in un altro piano nello stesso edificio vi fossero i collaboratori che procedevano alla colorazione e all’inchiostratura delle celluloidi. Fra gli animatori principali, Carlo Bachini, che dirigeva le scomposizioni, interpellato anni dopo, ricordava anche: come animatori Amerigo Tot e Ennio Zedda; il capocoloritura Ettore Ranalli; e le scenografie affidate a Attalo – che realizzava anche le posizioni-chiave –, e Franco Fiorenzi, entrambi sotto la direzione di Mario Pompei, già noto umorista ed affermato scenografo. Chiesi allora a Barbara quanti acetati vennero realizzati ed egli mi confermò una gran mole di lavoro, anche se ne parlava come un lavoro molto approssimativo nell’organizzazione. Mi disse inoltre che il film venne realizzato in bianco e nero, ossia disegnato e colorato su celluloide con i toni di grigio. «Vennero fatti tantissimi disegni [17] dal momento che vi lavorammo per un anno intero, ma mancava di tutto, ad esempio, i registri per sovrapporre i fogli erano costituiti da due semplici pezzi di legno. Non vi erano attrezzature ed i disegni erano ripresi uno per uno con una semplice macchina fotografica, in modo molto impreciso», mi spiegò. Chiesi a quel punto se alla fine avesse visto il film completo, dal momento che sui diversi libri dell’epoca il Pinocchio veniva reputato incompiuto; anche se sul testo Le dessin animé di Giuseppe Maria Lo Duca, il critico italo-francese affermava che l’anno dopo il Verdini, da solo, tentò di concludere il film cercando di renderlo a colori col Sistema Catalucci. Mameli Barbara era una persona molto garbata. Giornalista professionista, Barbara mi raccontò col suo erudito accento siculo di avere sin da ragazzo la passione per il latino e greco, mostrandomi la sua biblioteca con tutti i classici BUR.
Ricordo che, incalzando con le domande, dovevo alzare la voce, mentre si avvicinava aiutandosi ad ascoltare con un corno… «Non lo vidi mai completato. Ogni tanto portavano qualche minuto in pellicola, ma poiché ballava tutto, ho rinunziato a vederlo. Ad un certo punto, dopo un anno di lavoro, il film fu interrotto per mancanza di finanziamenti», disse Barbara. Infatti, esauriti i finanziamenti, la CAIR cessò la sua attività facendo rimanere la gran mole di disegni inutilizzata. Alla fine di questo straordinario incontro, Mameli Barbara, avendo capito di avere a che fare con un intenditore, volle regalarmi un suo disegno a china su cartoncino, sul quale mi fece una dedica la quale m’incoraggiò ad andare avanti nella mia carriera di cartoonist.
Disegno autografato con dedica di Mameli Barbara:
«Al simpatico disegnatore Mario Verger con gli auguri per il successo. BARBARA 1992»
Lo stile del Pinocchio di Attalo-Barbara-Verdini è molto semplice; pare sia stato il Verdini a darne l’impronta così delicata e pulitamente spiritosa, mentre la fata era palesemente opera di Barbara. Ma il film non riuscì mai a raggiungere gli schermi cinematografici poiché Disney, che stava mettendo in cantiere Pinocchio, acquistò i diritti letterari ed anche, pare, il negativo originale del film. Il Pinocchio di Attalo-Barbara-Verdini si troverebbe probabilmente a tutt’oggi rinchiuso negli enormi studi californiani come mi venne confermato una ventina di anni or sono dall’animatrice Silvia Pompei, nipote dello scenografo Mario e figlia dell’urbanista Stefano Pompei e della storica dell’arte Paola Pallottino (figlia dell’etruscologo Massimo Pallottino), la quale ha seguito tutta la vicenda quando lavorava alla Walt Disney Productions in America[14].
Mario Verger © 2020 – Tutti i diritti riservati
Il mistero del “Pinocchio” animato del 1936
e altri tesori scomparsi:
nuove considerazioni sul cinema d’animazione italiano delle origini
Testo di Stefano Galeone
È di recente pubblicazione il notevole studio realizzato da Raffaella Scrimitore “Le origini dell’animazione italiana” con prefazione di Giannalberto Bendazzi (Tunué, 2013) [1]. Il testo si concentra prevalentemente su un lasso di tempo che va dal 1911 al 1949/1950 e per la prima volta si è tentata una disamina per quanto possibile completa degli autori, delle opere, delle tecniche e degli stili di quel particolare tipo di produzione in Italia.
Le opere menzionate sono di notevole interesse e hanno rappresentato per tanto tempo in Italia una sorta di studio a sé stante rispetto alla storia del cinema “dal vero” e “in carne e ossa”. Esistono tante pubblicazioni sul tema a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’70 che tuttavia non hanno quasi mai avuto una valenza “scientifica” poiché mancano riferimenti espliciti ad articoli, interviste e materiali consultati. I risultati di questi lavori sono spesso frammentari e confusivi ma di certo hanno rappresentato un primo importante tentativo d’indagine. Oggi disponiamo indubbiamente di mezzi più efficaci per le nostre ricerche.
In tempi recenti i contributi più rilevanti sono stati sicuramente i lavori di Bendazzi – grande studioso del cinema d’animazione in generale e dell’opera di Quirino Cristiani in particolare – e quelli di Mario Verger. Si deve tanto a quest’ultimo per ciò che concerne lo studio dell’animazione italiana [2], i suoi contributi e i suoi sforzi allo scopo di ricostruire la storia del nostro cinema d’animazione non sono mai stati adeguatamente considerati e premiati.
Il testo della Scrimitore tiene conto del lavoro svolto in precedenza da Bendazzi, da Verger e da altri studiosi. L’apporto più significativo consiste nell’aver recensito ed elencato le opere superstiti localizzate in alcune cineteche italiane e le opere che necessiterebbero di un restauro immediato (in particolare cita Barudda è fuggito di Spanò e Volpino e la papera ribelle di Chierchini che si trovano presso la Fondazione Micheletti insieme alle opere della Gamma Film dei Gavioli).
Riportando alcune considerazioni di Mario Verger, pare tuttavia che opere come Barudda è fuggito di Spanò e alcuni lavori di Carlo e Vittorio Cossio o di Gustavo Petronio (ad esempio Arrigo e il suo tigrotto) possano sopravvivere anche altrove:
«Il Prof. [Attilio] Giovannini, del quale avevo già apprezzato il suo Guida alla pubblicità cinematografica, in più di un’occasione mi raccontò gran parte degli aneddoti riguardanti lo svolgersi di mezzo secolo del mondo dell’animazione italiana: dalla sua amicizia e collaborazione con Nino Pagot all’epoca de I fratelli Dinamite, compresi i fatti risalenti all’epoca della guerra, come ad esempio l’aneddoto della bomba che distrusse la Pagot Film in quel periodo, svelandomi che fu in realtà una loro invenzione atta a ritardare la conclusione del cortometraggio ad episodi Tolomeo, poi radunato nel definitivo lungometraggio, passando poi dai primissimi caroselli alla nascita di Calimero e tanti, tanti altri aneddoti, a dir poco unici.
Egli mi invitò nel 1991 a Milano a visionare in moviola alcuni film che facevano parte di una sua collezione personale, poco prima di cederli alla Rai; e precisamente ricordo: alcuni dei primi short del pioniere triestino Gustavo Petronio riguardanti la serie Arrigo e il suo Tigrotto, Zibillo e l’orso di Carlo e Vittorio Cossio, Nel paese dei ranocchi di Antonio Rubino, Barudda è fuggito di Umberto Spanò, ed altri, alcuni dei quali passarono anni addietro in TV nella trasmissione di Mario Accolti Gil, Le mille e una sera; come anche, ospite da Giovannini, apprezzai le moltissime celluloidi prodotte su vecchio materiale infiammabile da lui collezionate in cinquant’anni di attività. Purtroppo, pare che la Rai, attualmente, non “ricordi” dove sia finita la “Collezione Giovannini». [3]
Carlo Montanaro conferma che la maggior parte delle opere collezionate da Attilio Giovannini sarebbero state cedute alla Rai e che molti cortometraggi oggi considerati scomparsi sarebbero stati trasmessi in programmi come “Mille e una sera” e “Pubblimania”. Un’altra parte di questo archivio si troverebbe invece presso la Cineteca del Friuli. [4] Il libro della Scrimitore ci informa inoltre di tutte quelle opere ultimate o rimaste incompiute che un giorno potrebbero riemergere dall’oblìo. In questo senso è indubbiamente molto utile per ogni ricercatore avere l’elenco “aggiornato” delle opere da ritrovare.
Solo di rado l’autrice fa riferimento alle coeve produzioni cinematografiche realizzate mediante pupazzi e marionette. Un esempio è rappresentato dal film I quattro moschettieri del modenese Campogalliani del 1936 considerato uno dei tanti film con le marionette di quel periodo. Per la precisione si tratta dell’unico lungometraggio italiano realizzato completamente con questa tecnica (ad eccezione della brevissima introduzione che precede i titoli di testa), motivo questo di grande interesse storico e cinematografico.
Come scrive nell’introduzione la stessa autrice, il lavoro va inteso come un primo importante contributo che ci si augura possa «dar luogo a nuovi accertamenti, indicazioni e correzioni». [5] In questa sede cercherò di dare il mio contributo.
Per quanto concerne Luigi Liberio Pensuti, già Mario Verger aveva pubblicato un importante articolo in merito. [6] Entrambi gli autori riportano che Crociato ‘900 e La taverna della TBC (o La taverna del tibiccì) sarebbero lo stesso film. Un recente restauro di alcuni lavori di Pensuti per opera della Cineteca di Milano – nato dal recupero di un fondo filmico depositato da Giulia Ciniselli – ha invece svelato che si tratta di due film diversi.
Forse Il bacillo di Koch e Il francobollo benefico potrebbero comporre il film Crociato ‘900 dal momento che i protagonisti sono proprio il bacillo e il francobollo succitato e poiché vengono menzionati lo stesso anno.
L’articolo di Verger riferisce inoltre che Ahi Hitler! e Un idillio a Ginevra sarebbero lo stesso film, tesi non supportata dalla Scrimitore che data il primo film al 1934 (e si può rintracciare, in effetti, in una Rivista Luce di quel periodo) e il secondo al 1940-1942. Non ci è dato al momento sapere se si tratti o no dello stesso film e se la data 1940-1942 costituisca un errore.
Certamente conosciamo oggi grazie al restauro della Cineteca altri titoli che non erano stati contemplati dai due studiosi: Campane a stormo! (1931), Squilli di vittoria (1938), Colpi d’ariete (1940) e Tappe di vittoria (1940). Esiste invece un film intitolato Il pericolo pubblico n.1 del 1938 (mentre Verger e la Scrimitore parlavano di un Nemico pubblico numero 1 del 1932-1934).Dei lungometraggi sul tema della tubercolosi, citati nell’articolo di Verger, al momento non vi è alcuna traccia. [7]
La vita e l’opera del modenese Gino (Luigi?) Parenti resta avvolta nel mistero. Una recente indagine operata da Stefano Bulgarelli e da me sul territorio modenese e reggiano non ha dato i frutti sperati. Di una Secchia rapita di Gino Parenti esistono scarsissime informazioni e tutte di seconda mano. Si sa di certo invece che i fratelli Cossio misero mano al testo tassoniano realizzando la loro versione de La secchia rapita, della quale esistono molti fotogrammi. Il film dei Cossio prodotto dalla SICED con il sistema Gualtierotti viene peraltro citato in un articolo apparso sul Corriere della Sera firmato da Filippo Sacchi e intitolato “Nei laboratori del cartone animato italiano”. In questo contesto si parla anche di un cartone animato in cantiere intitolato I figli della lupa con soggetto e disegni realizzati dal grande artista Amerigo Bartoli e di un divertente cartone animato SICED già presentato al pubblico intitolato La meccanica del proietto. [8]
Tornando a Parenti, è certo invece che l’umorista e disegnatore modenese morto in terra reggiana avesse lavorato nel 1936 al film Il prode Anselmo. Nel libro “Bibidi bobidi bu: la musica nei cartoni animati da Betty Boop a Peter Gabriel”, gli autori scrivono quanto segue: «L’umorista Gino Parenti, realizza con il solo aiuto del sinfonista Daniele Amfiteatroff, “Il prode Anselmo” (1936)». [9]
Raffaella Scrimitore scrive che non ci sono prove a sostegno della tesi che La secchia rapita di Parenti non sia mai stata realizzata e che Il prode Anselmo risalga al 1941. Per le musiche dei due film cita rispettivamente Massimo e Alessandro Amfiteatroff (o Amphiteatroff). Tuttavia, le informazioni sul primo film latitano nei giornali dell’epoca e l’anno del secondo film (1936) trova definitiva conferma su un articolo de La Stampa di Martedì 16 ottobre 1934 che lo dava in cantiere da quella data. [10] Anche l’ipotesi di musiche composte da Daniele Amfiteatroff (o Amfiteatrov) per i film di Parenti sarebbe più probabile (il padre Alessandro era uno scrittore e il fratello Massimo – citato anche da Zanotto come autore delle musiche – era un violoncellista).
Per quanto riguarda l’opera di Antonio Attanasi, personaggio sicuramente da indagare e approfondire, è bene precisare che il suo Pulcinella cetrulo d’Acerra è un mediometraggio ed è attualmente reperibile mentre il lungometraggio I picchiatelli (o La montagna tonante) fu ultimato e distribuito a livello regionale, tesi confermata anche dai parenti del regista. Per quanto riguarda Gibba, è interessante notare che Le avventure di Rompicollo (noto anche come Dan e Pamela) venne effettivamente ultimato.
L’artista mi riferì che Nino Rota aveva già composto e persino registrato alcune musiche per quel film, tuttavia nel giro di poco tempo la produzione fallì ma il film fu poi ripreso e portato a termine da Perogatt (Carlo Peroni) su invito dei nuovi soci di Raniero Materazzi. Gibba mi ha assicurato di aver visto il film finito ma di non averlo gradito poiché lo stile del primo tempo differiva notevolmente dal secondo. Il film non ebbe probabilmente alcuna distribuzione. A distanza di anni Peroni avrebbe riferito a Gibba di aver rintracciato la copia del film. La morte del grande artista nativo di Senigallia lascia al momento senza soluzione il mistero intorno a questa pellicola.
La storia del “Pinocchio” del 1936 resta forse la vicenda più intrigante, se non altro perché si tratterebbe del primo lungometraggio d’animazione italiano e, forse, del primo lungometraggio realizzato in animazione tradizionale e a colori in assoluto. In realtà, si parlava anche di un Vita di Mussolini del 1927 in bianco e nero ad opera di Guido Presepi. A parlarne fu per primo Zangrando nel suo celebre “L’Italia di cartone” [11] e in seguito ne fece menzione anche Rondolino [12].
Ci darà maggiori informazioni a riguardo Verger in un suo articolo:
«Vista l’esperienza che andava acquisendo, Presepi fu il primo a tentare in Italia la strada del lungometraggio realizzando, praticamente da solo, nel 1927, Vita di Mussolini. Prodotto dalla Compagnia “Lo Spettacolo”, il film, della durata complessiva di oltre un’ora, metteva in luce la mentalità forse allora troppo anarchica di Presepi, il quale, dopo aver realizzato gran parte del film non trovò approvazione da parte dei finanziatori che ne impedirono il proseguimento. Rimasto deluso dalla cattiva impresa, dopo qualche anno abbandonò l’attività dei disegni animati e continuò ad occuparsi di cinema e di teatro.» [13]
Anche in questo caso si tratta tuttavia di informazioni spesso poco attendibili o frammentarie. Non ci è dato sapere con certezza se il film sia mai stato iniziato o completato. Verger stesso mi raccontò che i parenti di Presepi non erano a conoscenza di questo progetto di cui in qualche modo negli anni si prese a parlare. Documenti a riguardo restano al momento irreperibili.
“Gec” Enrico Gianeri, nel suo fondamentale libro sull’animazione che contiene anche numerosi e “misteriosi” fotogrammi riguardanti il Pinocchio del 1936 e che ne parla come se lo avesse effettivamente visto, ci parla di un “Pinocchio” animato ancora più antico realizzato nel 1932 su suolo giapponese ad opera di Naburo Ofuji:
«Strano a dirsi, il primo tentativo di Pinocchio Disegno-Animato fu un Pinocchio orientale con gli occhi a mandorla, e fiancheggiato da un Geppetto mongolo, una Fatina dai Capelli Turchini dal sapore di soave geisha, un Pescatore Verde dall’aria di barbuto samuraj [scritto con la j]. La Cinematografia Nipponica pensò infatti di debuttare nel Cartone Animato, nel 1932, con un film sulle vicende dell’immortale burattino.
Il “Pinocchio” giallo fu, per i suoi tempi, il più lungo metraggio del Disegno Animato. Venne iniziato nel 1929 e costò ben tre anni di lavoro assiduo e meticoloso. Fu completato soltanto nell’ottobre 1932 ed aveva richiesto l’opera di ben 52 raffinati disegnatori sotto la guida di Noburo Ofuji, allora alle sue prime esperienze. Il “Pinocchio” nipponico, oltre ad essere il primo lungometraggio animato, si può considerare anche come il primo Disegno a colori in quanto, se non tutto il film, almeno alcune scene di esso erano state suggestivamente colorate grazie ad uno speciale procedimento chimico. Il film, che si divideva in tre parti, fu lanciato con grande successo di interesse e di critica nel dicembre del 1932.» [14]
Fino ad oggi non si sapeva molto di questo film. Qualche critico dell’epoca parlò molto bene dell’opera in questione e si spinse anche a considerarlo notevolmente superiore al film realizzato da Walt Disney nel 1940. Qualche studioso ipotizzò un sequestro dell’opera da parte della censura [15] e, in effetti, un articolo di Bosio apparso su La Stampa di Torino conferma definitivamente questa tesi:
«L’anno scorso una casa nientepopodimeno giapponese, pensò di girare un film su Pinocchio: pare che oggi questa pellicola sia stata ultimata, ma non essendosi la Casa messa preventivamente d’accordo per la cessione dei diritti d’autore del libro, né avendo voluto ora acquistarli, il film è stato giustamente fermato.» [16]
Se il film è stato ritirato dalla censura per ragioni di diritto d’autore, potrebbe ancora esistere in qualche archivio. I diritti d’autore su Pinocchio incisero probabilmente – oltre alla mancanza di collaboratori e finanziatori – anche sull’opera di Attanasi del 1935, probabilmente iniziata ma non portata a termine, e quasi sicuramente anche sul cortometraggio realizzato da Ugo Amadoro con protagonista un «bizzarro fantoccio elastico, originalmente buffo» simile a Pinocchio ma che non lo cita esplicitamente, realizzato con la tecnica delle silhouettes e del quale attualmente non ci è dato sapere molto di più. [17]
Luca Mazzei riporta in un suo importantissimo studio che a questo punto:
«i diritti per la riproduzione cinematografica vennero ceduti da Enrico Bemporad all’Enac e da questa alla Caesar (Film) il 3 maggio 1929 per un periodo che andava da quella data al 31 dicembre 1940.» […]
«La Caesar di Barattolo dichiara che realizzerà due film: Mimì bluette, fiore del mio giardino e, per l’appunto, Pinocchio. Per questo ha anche messo su un concorso con la rivista “Kines”, destinato ad identificare gli attori protagonisti. […] Le notizie sono ovviamente confermate dalle pagine di “Kines”, dove il concorso, che è annunciato sul n. 28 del giugno 1931, si dichiara definitivamente chiuso (con l’invio del plico con i dati dei concorrenti alla ditta) sul n. 42 del 18 ottobre 1931. E’ ben notare però che, sia negli articoli dedicati a Kines in questo periodo al proprio concorso, sia in altri negli stessi numeri o in quelli precedenti comparsi non esiste riferimento alcuno ai film che gli attori così scelti andrebbero ad interpretare, né al programma stesso della casa di produzione.» [18]
Oggi tutti gli studiosi sono concordi nel considerare il progetto della Caesar-Film (o Cesar Film) un progetto destinato a essere interpretato fin dall’inizio da attori in carne ed ossa. Tuttavia esistono testimonianze contrastanti in merito. Tanti studiosi del passato (da Gianeri a Savio, solo per citarne alcuni) parlano di un primo tentativo di lungometraggio d’animazione italiano su Pinocchio prodotto proprio dalla Caesar che avrebbe riunito gli illustratori del “Marc’Aurelio” sotto la guida del tanto citato Umberto Spanò (alias Umberto Spano). [14] [19] Gianeri parla di un film molto diverso da quello tentato in seguito dalla C.A.I.R, un lungometraggio nel quale «solo pochi quadri avrebbero dovuto essere a colori» e nel quale «i disegnatori si sforzavano di differenziarsi graficamente dal famoso cliché di Attilio (Mussino)».
La tesi troverebbe conferma nelle parole di disegnatori che presero parte alla successiva produzione C.A.I.R. (a partire da Ennio Zedda). Anche Paola Pallottino parla di una scenografia (“Il Paese dei balocchi”) firmata da Mario Pompei per un Pinocchio animato del 1931, sebbene sul numero di “Scenario” in questione non si faccia esplicito riferimento né a un lungometraggio d’animazione né alla Caesar-Film. [20]
Mazzei cita un testo di Maria Jole Minicucci nel quale si parla di una lettera della Bemporad recapitata all’ufficio romano della MGM del 26 gennaio del 1933 nella quale si dice che la Caesar non poteva più dar atto al suo progetto cinematografico riguardante Pinocchio e Bosio, nel succitato articolo, sembra chiarire definitivamente come andarono le cose:
«Circa quattro anni fa all’inaugurazione della Caesar-Film rinnovata, l’onorevole Barattolo aveva annunziato un Pinocchio da girarsi con attori in carne ed ossa, ma con costumi e ambienti sapientemente stilizzati. […] La sceneggiatura dovuta, se non erriamo a Febo Mari ci dissero che era piena di gustose trovate. Gran parte degli attori erano stati scelti, Mario Pompei aveva disegnato le scene, i mobili e i costumi, il tutto veramente con molto buon gusto e sapore. Anzi il giorno dell’inaugurazione in un teatro trovammo alcuni ambienti già montati, ma poi, come capitò spesso a questa Casa, tutto andò a monte e gli ambienti montati servirono, convenientemente truccati, ad Amleto Palermi per girare alcuni quadri del primo film di Emma Gramatica: La vecchia signora! (uscito nelle sale nel 1932).»
Non è possibile purtroppo recuperare articoli o materiali dell’epoca nei quali si parli esplicitamente di un progetto così ambizioso ed importante come quello di un lungometraggio animato anteriore a quello della C.A.I.R. e i resoconti dell’epoca parlano da subito di un film Caesar concepito “con attori in carne ed ossa”. L’idea di un lungometraggio animato “del 1935” anteriore all’esperienza C.A.I.R. pare dunque il frutto di un errore. Bosio descrive nel medesimo articolo la corretta ubicazione della C.A.I.R. che subentrò alla Caesar:
«Così i diritti d’autore per tutto il mondo delle avventure di questo celebre burattino […] sono stati ora comprati dalla C.A.I.R. […] Barbara ci conduce a visitar questo nuovo stabilimento. Entriamo in un vecchio portone di una viuzza accanto all’Università, quel portone da cui si entra anche per salire al loggione del Teatro Valle. Al terzo o al quarto piano ci fermiamo davanti ad una porta con tanto di CAIR scritto ben chiaro su una lucida targa.»
L’autore dell’articolo conferma la paternità dell’opera dei fratelli Bacchini dei quali cita anche due film a cartoni animati conclusi (Dalla terra alla luna e Lamorte ubriaca, all’epoca non ancora usciti in Italia ma distribuiti all’estero dove avrebbero avuto successo), parla di un possibile coinvolgimento del Maestro Umberto Giordano per le musiche (che sarà poi sostituito da Romolo Bacchini per questioni probabilmente di budget) e cita i noti illustratori e disegnatori che presero parte al progetto.
A Ottobre dello stesso anno, tale M. G. parla di una lavorazione «quasi giunta al termine», precisa che si tratta di novanta minuti di film e che il colore sarà realizzato mediante il sistema Catalucci. Spiega inoltre che il film sarebbe stato un “preludio” alla produzione di tanti altri cortometraggi a colori con protagonista Pinocchio. [21] Questa tesi è sostenuta anche da Agorient in un articolo del 1935 che compare su “L’Italia Marinara”.
In questa sede si parla anche di «ogni esclusiva della C.A.I.R. per l’adattamento, la figurazione, riduzione e rappresentazione di Pinocchio [di Collodi]» e parla di una distribuzione del film in Francia, Germania, Spagna e America. Si parla inoltre di un «Pinocchio che s’improvvisa menestrello e che graziosamente canterà una bella romanza, mentre la danza delle faine sarà di grande comicità». [22]
A Luglio del 1936 le prospettive sono rosee e un po’ ovunque si parla di un’uscita imminente, probabilmente nell’inverno dello stesso anno. Il 18 Luglio del 1936 viene dato l’annuncio che il film sarà presentato ufficialmente a Buenos Aires:
«Sotto la presidenza dell’Ing. Cervini e la direzione tecnica di Tito Sansone, si è costituita in questa capitale la ditta Latina Film, che ha lo scopo di presentare pellicole italiane scelte fra quelle che hanno elevato carattere artistico e che rispondono, soprattutto, al nuovo ritmo della vita italiana. La Latina Film ha stretto contatto con la U.N.P.P., l’organismo sorto a Roma alle dipendenze della Direzione generale della cinematografia, per l’esclusività nel Sud-America di tutta la produzione italiana. Saranno così rappresentate, tra le altre, le seguenti pellicole: Scarpe al sole, Le avventure di Pinocchio, Lorenzo De’ Medici, Ginevra degli Almieri, Ballerine, Re Burlone, L’Africano.» [23]
Questo non significa che il film sia stato effettivamente terminato e presentato, tuttavia ci dà abbastanza certezze circa la fase di lavorazione avanzata del film. La distribuzione internazionale è quella dei De Vecchi e nel corso di tutto l’anno 1936, su tutte le riviste di cinema dell’epoca, compaiono fotogrammi e locandine che parlano di un’uscita imminente del film. Già nel Novembre dello stesso anno l’entusiasmo pare tuttavia scemare.
La rivista lo Schermo scrive «I De Vecchi han promesso da tempo un Pinocchio» [24] e La Stampa (ma non solo), che aveva seguito con grande entusiasmo la lavorazione del film, non ne fa menzione per tutto l’anno 1937mentre dal 1938 comincia a parlare con entusiasmo del progetto di Walt Disney, che nel frattempo si sarà assicurato i diritti sull’opera. [25] [26] Il 5 aprile 1938, il nostro M. G. de La Stampa è piuttosto esplicito: del nostro Pinocchio «non si è saputo più nulla», quindi verosimilmente non è mai stato ultimato né distribuito.
Lo stesso giornalista parla anche di precedenti tentativi isolati per ciò che concerne il lungometraggio animato tutti “caduti nel vuoto”. Anche per Vita di Mussolini e per altri simili tentativi dell’epoca cadono dunque le speranze. [27] Nel 1939 lo stesso giornalista ne parla come di un film definitivamente naufragato:
«Che colpa ne ho io, e ne hanno i nostri produttori, se italiano è stato quel grande scrittore che si chiama Collodi e ancora non lo è un uomo di cinema che le creature di Collodi sappia degnamente recare su di uno schermo? Bastasse volerlo, bastasse desiderarlo, tutti i problemi della nostra cinematografia si risolverebbero in quattro e quattr’otto: per risolverli, invece, c’è un solo mezzo: lavorare duramente» [28]
Mameli Barbara, uno dei collaboratori più prestigiosi del film, riportò nel 1992 in un’intervista realizzata da Mario Verger che la lavorazione del film fu piuttosto travagliata a partire da una sceneggiatura inesistente e da condizioni di lavoro a dir poco dilettantesche e “pionieristiche”:
«Ad esempio, i registri per sovrapporre i fogli erano costituiti da due semplici pezzi di legno. Non vi erano attrezzature ed i disegni venivano ripresi uno per uno con una comune macchina fotografica, in modo molto impreciso. Non lo vidi mai completato. Ogni tanto portavamo qualche minuto in pellicola, ma poiché ballava tutto ho rinunciato a vederlo. Ad un certo punto, dopo un anno di lavoro, il film fu interrotto per mancanza di finanziamenti» [29]
Walt Disney, che si era interessato a Pinocchio già nel 1934 registrando questa sua “priorità” alla Motion Picture Producers and Distributors of America e che nel 1935 aveva annunciato questo progetto alla stampa, già dalla fine del 1936 poteva dunque scendere in lizza per i diritti sul libro e dal 1937 inizia a lavorare alla sua versione cinematografica. [30] [31] Nel 1936 si ribadisce in un articolo che i diritti sono “esclusivamente” in mano alla C.A.I.R. e dunque per il momento Disney dovrà rinunciare al progetto. [32] Il contratto si chiuderà solo nel Giugno del 1938.
A questo punto le tracce di questo “italianissimo” lavoro si perdono. Bono in suo recente lavoro cita un articolo di Don Carlo Gnocchi intitolato “Oltre il cinema” e apparso sulla rivista Mammina dell’Agosto 1939, nel quale si parla ancora del film italiano come se effettivamente fosse stato realizzato. Gli altri giornali invece non ne fanno più menzione e parlano solo dell’imminente uscita del capolavoro Disney. Nel medesimo saggio, Bono riporta le drammatiche condizioni firmate dalla C.A.I.R. in favore della Disney nel 1938:
«La CAIR recede dal contratto stipulato con Bemporad che viene rigirato alla Disney, rinuncia a ogni sua pretesa presente e futura su Pinocchio e acconsente a distruggere tutto il materiale, disegnato e girato, realizzato fino a quel momento e questo a fronte di un indennizzo di 370.000 lire». [33]
Tali condizioni non sono purtroppo in contrasto con quanto affermato da Verger, ovvero che «Raoul Verdini avrebbe tentato in un secondo momento di portare a termine il film da solo, cercando di trasformarlo a colori con il succitato sistema Catalucci, tuttavia non riuscendo nell’intento». L’impresa sarebbe infatti datata al 1936, anno nel quale la C.A.I.R. si era ritrovata a corto di finanziamenti ma ancora vincolata con Bemporad.
Il film sarebbe dunque stato distrutto. Non è escluso tuttavia che qualche collezionista o, più verosimilmente, qualche personalità coinvolta economicamente o artisticamente nella produzione del film, con l’impegno di far sparire per sempre i suddetti materiali, possa aver preservato il frutto di due anni di un duro e ambizioso lavoro.
Inoltre, la nota affermazione riguardante la possibilità che Walt Disney possa in qualche modo essere entrato in pieno possesso dei materiali del film trova qualche conferma e non è poi così priva di fondamento come si credeva. Oltre a Verger che aveva probabilmente riportato questa “voce” dopo avere avuto la possibilità di incontrare e di intervistare Mameli Barbara, altre fonti contribuiscono ad avvallare questa tesi.
Ennio Zedda (1910-1993), che prese attivamente parte alla realizzazione del film, conferma in un’intervista realizzata da Silvia Pompei nel 1985 che il film C.A.I.R., nonostante fosse pubblicizzato fin dall’inizio come un lungometraggio a colori, venne girato invece in bianco e nero e solo in un secondo momento ci si sarebbe posto il problema del colore. Ci informa inoltre che una colonna sonora doveva essere stata realizzata poiché i riferimenti “sonori” per i disegnatori erano esplicitati e che esisteva una sceneggiatura (anche se probabilmente si trattava più di un canovaccio). Il primo tempo del film era stato completato e aveva richiesto ai pochi collaboratori (una trentina di persone) due anni di duro e incostante lavoro. Nel momento in cui la C.A.I.R. chiuse i battenti, la prima parte del film era già stata montata a sincrono con musica e dialoghi e si stava lavorando al secondo tempo, che Verdini avrebbe poi tentato di ultimare da solo.
Le trattative tra Walt Disney e l’oscuro finanziatore del film, tale Avvocato Todaro (ma altre fonti citano invece gli avvocati Aldo Alboretti e Giuseppe Busala come intermediari) vengono descritte esplicitamente:
«Piuttosto non capisco cosa avranno fatto dei nostri 50.000 disegni. Hanno preteso il materiale, era nel contratto. Hanno ripagato tutte le spese all’avvocato, le spese di cui si lamentava sempre. […] [L’avvocato Todaro] dopo il primo tempo del film, che era stato ultimato, ha sospeso tutto il lavoro. Disney ha voluto tutto. Hanno portato via casse di roba comprese le pizze dei film e Disney o lo studio Disney ha ripagato l’avvocato abbondantemente, in più gli hanno dato altri soldi. L’avvocato era molto contento [data la situazione fallimentare]. Si profilava con il film una dispersione di soldi mai vista. […] A Verdini di questo non era stato detto nulla inizialmente. Tutta la cosa è stata fatta dicendo a Verdini che facesse una pausa, che mettesse in riposo i disegnatori, che dopo quindici giorni si sarebbe ripreso il lavoro. Verdini intanto era andato avanti con le scene. […] L’avvocato Todaro fu contattato da Disney direttamente e gli chiese chi aveva i diritti del cartone. Lui rispose che li avevano lui e lo stesso Verdini. Disney fece questa proposta e Verdini non ebbe poi nulla da obiettare [poiché sulla lavorazione del film erano nel frattempo sorte polemiche e persino un caso giudiziario] ed ebbe successivamente l’ordine di consegnare tutto, celluloidi, pizze, fino all’ultimo disegno.» [34]
La testimonianza di Zedda non esclude tuttavia che i materiali possano essere andati definitivamente distrutti. Si limita a dire che “gli americani” portarono via (o fecero portare via) tutti i materiali ma si chiede anche lui che fine abbiano fatto.
Un articolo apparso su La Stampa nel 1968, in occasione della produzione del Pinocchio di Cenci, risulta meno drastico e lascia intravedere qualche speranza:
«L’ultimo [Pinocchio] fu quello iniziato da un gruppo di vignettisti collaboratori allora del giornale umoristico “Marc’Aurelio”: Verdini, Attalo e Barbara. Disegnarono e animarono varie sequenze, però i loro stili erano troppo diversi e i quattrini cominciarono ad un certo punto a scarseggiare, per cui il lavoro non solo fu interrotto ma ceduto, con i diritti sulla realizzazione per il cinema della immortale favola, a Walt Disney che ne ricavò un Pinocchio tutto suo, cioè molto americano e poco collodiano.» [35]
In conclusione si può affermare che tanto si è fatto e che i recenti contributi di Mario Verger, Raffaella Scrimitore e di altri studiosi in merito al cinema d’animazione italiano delle origini (e non solo) restano di fondamentale importanza, tuttavia la strada è ancora lunga e costellata di numerosi punti interrogativi. Tanti sono i film, anche recenti, di cui si è persa traccia. Cito tra gli altri e tra i titoli più recenti: Mondo animato n.1, film della Titanus con cartoni animati provenienti dall’URSS rimusicati da Morricone, Umiliani, Fidenco e Trovajoli, I dieci diritti del bambino (o Dieci per sopravvivere) film UNICEF a episodi per la regia di Cesare Perfetto, Manfredo Manfredi et al e musicato da Morricone, Rota, Bacalov, Macchi, Evangelisti, 200.000 leghe nello spazio per la regia di Marcello Baldi della Corona Cinematografica parzialmente a cartoni animati e parzialmente con attori in carne ed ossa…
Alcuni recentissimi ritrovamenti, tra i quali è opportuno ricordare L’igiene di Tombolino (1932 – 1934) di Luigi Liberio Pensuti e il cortometraggio Non è più un sogno commissionato dalla FIAT nel 1932 e di dubbia attribuzione, lasciano sperare positivamente.
Per quanto riguarda il pioniere dell’animazione di origine italiana Quirino Cristiani e le altre opere realizzate dal suo emulo e collaboratore Andrés Ducaud, la speranza è che Buenos Aires prima o poi s’interessi alla questione e apra le porte per ulteriori indagini in merito. Rintracciare parenti di Federico Valle, di Guillermo Franchini e persino di Yrigoyen potrebbe portare forse a qualche risultato. La famiglia Savoia potrebbe illuminarci invece in merito al cortometraggio di Cristiani Humbertito de garufa del 1924, dedicato proprio a Umberto di Savoia che ricevette in dono dal regista una copia del film. Anche la Disney potrebbe forse possedere qualche copia dei film di Cristiani. Walt Disney e Cristiani si incontrarono nel 1941, molto prima dei due incendi che distrussero pressoché il corpus integrale delle sue opere, e non è escluso che Cristiani possa aver fatto dono a Disney di qualche sua opera nella speranza di possibili collaborazioni future. [36] [37]
Le ricerche sono solo iniziate…
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«Le avventure di Pinocchio»:
La CAIR di Romolo Bacchini