È possibile superare l’austerità attraverso una nuova visione dell’economia? È possibile immaginare strumenti innovativi di rilancio economico utili a rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto il pieno sviluppo della persona umana, impediscono il progresso sociale?
Di seguito pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Marco Cattaneo al convegno “Attuare la Costituzione”, svoltosi il 18 marzo 2017 a Milano, in cui il relatore propone un cambiamento nella politica economica attraverso uno strumento finanziario chiamato a volte “moneta fiscale” oppure più propriamente “CCF” (“Certificati di Credito Fiscale”).
“Rilanciare l’economia italiana con i Certificati di Credito Fiscale”, di Marco Cattaneo
Di solito non sono particolarmente “ipereccitante” quando parlo in pubblico, casomai il contrario. […]
Mi ricollego ad alcune cose che sono state dette precedentemente e che si ricollegano ai motivi per cui ho cominciato a occuparmi di un progetto di moneta complementare all’euro. Quindi, uno strumento all’interno dell’eurosistema per far sì che l’euro funzioni. In quanto, al di là dei punti specifici su cui si può tornare e su cui si può essere più o meno in accordo […] però non c’è dubbio che la spaccatura dell’euro (nel senso di “fuoriuscita” e/o rottura) è un problema tecnicamente e operativamente complicato. Non vi dico che è impossibile (non penso che sia impossibile) sicuramente ha degli ordini di complessità piuttosto alti.
Quello che mi preoccupa non è che spaccature e rotture siano ingestibili, nella vita di cose ingestibili ce ne sono poche (sono crollati degli imperi, figuriamoci se non si possa sciogliere un’unione monetaria). La mia grande preoccupazione è che il consenso politico per un passaggio come la rottura dell’euro potrebbe non risultarsi per tantissimo tempo, appunto perché ci sono queste difficoltà e appunto perché esistono questi dubbi (in parte legittimi, in parte esagerati – possiamo discuterne), però poi bisogna arrivare al momento, se mai si percorre questa strada, in cui si forma una volontà parlamentare dove c’è un 51% che si esprime per percorrere questa via. E non è semplice, non è banale, non è assolutamente scontato.
Ragionando sotto il punto di vista strettamente operativo (e mi rendo conto che poi sulla dimensione politica vi è un tema altrettanto importante, però, dicendo che è importante, il fatto tecnico non dobbiamo dimenticarcelo), dal punto di vista tecnico se vogliamo risolvere le disfunzioni del sistema euro la via più semplice è in realtà un’altra. Non è una via di rottura, ma una via di affiancamento.
Una maniera (che non è l’unica possibile ma su cui abbiamo lavorato molto insieme a Stefano Sylos Labini e a vari altri ricercatori con cui abbiamo sviluppato un lavoro comune che ormai dura da parecchi anni) consiste nell’introdurre nei singoli Paesi quello che abbiamo denominato “Certificato di Credito Fiscale” (CCF, sostanzialmente un titolo che dà diritto a ridurre pagamenti dovuti a valere su tasse future). È un titolo che può circolare sotto forma dell’equivalente di un titolo di Stato, che però non è debito (lo Stato non s’impegna a rimborsarlo, s’impegna solo ad accettarlo a partire da una certa data futura). Quindi, io Stato assegno gratuitamente, metto in circolazione un certo quantitativo di questi strumenti, per esempio dal 2017. A partire dal 2019 il possessore di quel titolo (che deve pagare IVA, deve pagare IRPEF, deve pagare qualsiasi forma di tributo […] al settore pubblico) può ridurre l’ammontare di tali pagamenti in funzione del quantitativo di titoli (CCF) che possiede.
Immettendo [tali titoli] in circolazione […] si può anche adeguatamente incentivare che nasca un meccanismo di accettazione di questo titolo (CCF) da parte del settore privato, delle aziende, della grande distribuzione, delle public utilities, perché di fatto è un equivalente monetario. Un supermercato (che ha costantemente da effettuare pagamenti pagamenti per IVA, per contributi, per sostituto d’imposta sulle tasse dei suoi dipendenti) lo vedrebbe come l’equivalente di moneta. Di fatto, abbiamo ridato allo Stato la capacità di emissione monetaria. L’abbiamo data, però, senza rotture e senza ridenominazioni (perché buona parte delle complicazioni dovute a un possibile break-up dell’euro consiste nel fatto che abbiamo dei rapporti di debito e credito che cambiano di colpo e che danno luogo a fenomeni di svalutazione, ma fenomeni anche di rottura contrattuale con poi azioni conseguenti sul piano legale, etc). Questa via di affiancamento, invece, risolve il problema.
Abbiamo lavorato molto anche sulla compatibilità di questa riforma con i trattati e anche con la Costituzione (compreso l’articolo 81). Non è contro i regolamenti (perché non esistono solo i trattati UE, esistono anche i regolamenti Eurostat che ci spiegano il trattamento contabile di determinate poste). Questo per metterci sotto un profilo di “verifica tecnica”, diciamo, e di linearità nei confronti di tutto quello che esiste nell’impalcatura attuale. Proprio partendo dal presupposto di dire: è possibile intraprendere una linea di politica economica completamente diversa (quindi superare tutta una serie di vincoli e di disfunzioni) senza uscire dal solco di quello che esiste oggi a livello normativo.
Allora, i punti fondamentali sono che questo titolo (che poi diventa anche uno strumento monetario di fatto, perché circola facendo funzione di moneta) non è debito pubblico perché lo Stato emittente non s’impegna a rimborsarlo in euro. Non viola neanche il monopolio di emissione monetaria della BCE è un titolo che avrebbe accettazione sul territorio nazionale. Quindi nessuno è obbligato ad accettarlo in tutti i 10 Paesi dell’eurozona. È accettato solo dall’emittente (quindi dal settore pubblico italiano se fosse l’Italia a intraprendere questa emissione). […]
I tedeschi dicono: non vogliamo farci carico dei vostri debiti. Intraprendendo un’azione di questo tipo si direbbe loro: benissimo, noi da domani non chiediamo nessuna garanzia di nessuno tipo su incrementi di debito pubblico. Esiste un impegno a raggiungere l’equilibrio (pareggio) di bilancio, ossia l’equilibrio tra flussi in entrata e flussi in uscita del settore pubblico in euro. […] Noi da domani rispettiamo questo impegno a una condizione: che tutte le politiche attive, di sviluppo, le possiamo effettuare utilizzando questo strumento. […]
Emettiamo il quantitativo che serve per migliorare i redditi dei lavoratori. Quindi diamo integrazioni salariali, non sostituzioni: non è che ci mettiamo a pagare stipendi, che prima erano in euro, in titoli fiscali. Continuiamo a pagare gli stessi 1500 euro al mese e aggiungiamo un titolo fiscale dal valore di 100 euro. Quindi, miglioramento salariale a favore dei lavoratori. Miglioriamo anche la competitività aziendale, quella che tradizionalmente si riallineava grazie a una svalutazione. Alle aziende diciamo: a fronte del fatto che paghi 1500 euro netti al tuo dipendente, tu sostieni un costo complessivo di 3000. Continui a pagarne 3000 a fronte di retribuzioni nette, contributi, tasse che paghi per conto del dipendente, ma ti rimborsiamo (cioè ti attribuiamo) un titolo fiscale di 200 di valore facciale.
Abbiamo uno strumento che ci consente anche di fare spesa sociale. Stamattina si sono dette tante cose sui programmi di reddito garantito, di lavoro di cittadinanza, di rilancio degli investimenti pubblici: tutte cose molto interessanti. In un contesto però in cui lo Stato non ha leve di politica monetaria espansiva, sono chiacchiere, sono buone intenzioni. Manca lo strumento. Dello strumento dobbiamo riappropriarci.
Questa è la via a mio parere operativamente più semplice. Poi non dico che sia l’unica possibile. Possono emergere altre idee, emergere alternative. Il concetto, però, è che bisogna intervenire sulla meccanica del sistema euro. Bisogna intervenire sapendo che ci sono certi requisiti minimi. Epperò bisogna farlo con un’azione a mio parere unilaterale.
E qui vengo brevemente a commentare alcune cose che sono state dette stamattina in merito alla revisione dei trattati, al fatto che bisogna evitare che nel 2017 il fiscal compact entri nell’ordinamento comunitario, etc. Queste sono, purtroppo, tutte false piste. Perché il fiscal compact può entrare oppure può non entrare nell’ordinamento UE, ma oggi è un trattato intergovernativo perché, nel momento in cui è stato stipulato, dell’Unione Europea facevano parte se non sbaglio 27 Paesi (non c’era ancora la Croazia). Hanno aderito in 25 [al fiscal compact], sono rimasti fuori il Regno Unito e la Repubblica Ceca.
Quindi è rimasto un trattato intergovernativo, ma al di là di questo (e a parte che gli inglesi sono comunque in uscita – cosa fanno i cechi non lo so) il punto è: cominciamo a fare una battaglia per non far entrare il fiscal compact nell’acquis communautaire (quindi nella base di tutte le normative UE). Rimane un trattato intergovernativo. Che cosa cambia? Assolutamente niente. Conta il fatto che è un vincolo, ma – tra parentesi – è un vincolo ineseguibile perché comporta dei tempi, di contrazione e riduzione del debito pubblico, che imporrebbero di fare politiche costanti di tagli e d’incremento di tassazione che poi s’avvitano su se stesse. Sarebbe la prosecuzione, accelerata, di quello che sta avvenendo costantemente in pratica dal 2011 a oggi. Ormai [sono] sei anni. Ci si morde la coda. Il cane insegue la propria coda, si cerca di ottenere un miglioramento di finanza pubblica con politiche che abbattono il reddito nazionale, a fine anno chiaramente si scopre che non ci si è riusciti. È un meccanismo distruttivo.
Da questa logica bisogna uscire. Quindi, la via che proponiamo e delineiamo è una via in cui deve esistere un governo […] che prenda atto di questo fatto e che riprenda in mano delle leve di politica economica, però con un percorso tecnico che non è di deflagrazione e per un semplice motivo, [ossia] che al di là di quello che si pensi […] oggi esiste un problema. Se esiste un problema, tanto è migliore sul piano tecnico e tanto è più facile l’implementazione di un’azione per risolverlo, be’, io credo che tanto più sia probabile riuscire effettivamente ad attuarla.
Non è semplice, però – ed è la mia preoccupazione iniziale (e concludo) – sono veramente spaventato dal rischio, molto alto, che si continui a discutere su come si potrebbe o non potrebbe rompere [l’eurozona]. Che ci sia una grande confusione nell’opinione pubblica è comprensibile, perché sono temi che sono già difficili per gli esperti. Figuriamoci per chi poi quotidianamente si occupa di altre cose. Che le forze politiche facciano ancora più confusione (ovviamente mancando le competenze per comprendere tutte le implicazioni che poi ovviamente hanno momenti di dibattito, confusione, la lex monetae, il rifinanziamento del debito, la ridenominazione di pagamenti commerciali). Poi si discute, e tra esperti magari un consenso lo si trova, ma neanche sempre. Tutto questo però si deve traslare in una volontà politica. Posso sbagliarmi, magari poi – come dicono molti – si arriverà alla fine a un processo che sarà caotico e disordinato. Questo è un rischio.
Vorrei dire una cosa per concludere, a scanso di ogni equivoco. Se qualcuno mi mette sotto il naso un tasto dove si dice “break-up”, dove si dice “rottura dell’euro domani”, io lo schiaccio. Il problema è che questo tasto poi, in pratica, non esiste. Se esistesse poi con ogni probabilità sarebbe qualcun altro a trovarsi nelle condizioni di doverlo schiacciare, però il vero problema è che queste condizioni politiche e operative potrebbero non crearsi ancora per un periodi di tempo che non riesco assolutamente a prevedere. Bisogna quindi avere in mente qualche altro schema e qualche altra proposta. Così, e concludiamo, il punto è di raggiungere questo obiettivo.
Video a cura di L’altra news
Trascrizione a cura di Francesco Chini
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Marco Cattaneo è un economista. Nato a Magenta (MI) nel 1962, laureato a pieni voti in economia aziendale (Bocconi 1985), tra il 1985 e il 1994 ha ricoperto cariche nell’area pianificazione, controllo, finanza aziendale e finanza straordinaria presso il Gruppo Montedison. Dal 1995 gestisce fondi e rappresenta primari investitori internazionali in operazioni di private equity. In qualità di amministratore delegato di LBO Italia (1995-2007) e di presidente di CPI Private Equity (dal 2008 in poi) ha finalizzato dodici operazioni di investimento in società imprenditoriali italiane di dimensione compresa tra i 10 e i 50 milioni di euro di fatturato, e ne ha supervisionato gestione e valorizzazione. Cura il blog “Basta con l’Eurocrisi“.
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